Nella terra degli stupri

Di Clara Geraci – Se nasci femmina, in Congo, prima o poi, leggerai negli occhi di tua madre le scuse per averti messa al mondo, come ti avesse condannato lei a convivere con quell’onnipresente senso di terrore che come una tenaglia mortale ti porterà via la vita giorno dopo giorno. Se sei femmina, in Congo, sei condannata all’inferno, e lei lo sa.

bbc8ecf0-63a1-4995-9239-ce46f7474616Se nasci femmina, nella terra degli stupri, non respirerai che aria di umiliazione e disonore. Sarai calpestata, violata, infamata. Non vivrai che nella paura e nella mortificazione. Perché, in Congo, «un ratto ha più valore del corpo di una donna» – per usare le parole di denuncia pronunciate nell’ottobre del 2010 durante il discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite da Margot Wallstrom, allora responsabile ONU contro le violenze sessuali in zone di conflitto.

Mentre il mondo guarda altrove, da oltre un ventennio la terra africana a cavallo dell’equatore è cosparsa di sangue e macchiata di vergogna. Gli sfregi sui campi di battaglia che sono i corpi delle donne congolesi, su cui selvaggiamente si combattono guerre e si conquistano ricchezze, dipingono un paesaggio dell’orrore. Raccontano di donne, di ogni età, imprigionate in una realtà di violenza raccapricciante che dovrebbe indignare e sconvolgere l’umanità intera.

Guerra-CongoOgni sorta di atrocità si compie regolarmente sui loro corpi di bambine o i loro ventri gravidi. Aggressioni sessuali di massa, mutilazioni genitali, deliberati contagi di HIV, torture, massacri e sevizie indicibili si praticano alla luce del caldo sole africano. Civili, membri dell’esercito regolare, mercenari delle milizie private, combattenti per i gruppi armati locali o stranieri: chiunque abbia un’arma, in Congo, se ne serve per infierire con fredda e sistematica ferocia sulle donne. È un mattatoio di carne umana. E come se non bastasse, c’è l’incubo della vigliaccheria del silenzio, del marchio dell’infamia e della solitudine dell’emarginazione. Tanti sono i figli degli stupri, troppe le stuprate.

ending-mass-rape-in-the-dr-congo«Avevo 5 figli, 4 femmine e un maschio. Hanno violentato e ucciso tre delle mie bambine. Prima, uno di loro mi ha violentata dentro casa e poi trascinata fuori mezza nuda. Da quando ho saputo di aver contratto l’Hiv sono molto preoccupata» racconta a Medici Senza Frontiere – che solo nell’ultimo anno e solo nella città di Kananga, nella regione del Kasai Centrale, ha censito oltre 2600 stupri, di cui 162 hanno coinvolto bambini, 22 dei quali non avevano neanche 5 anni – una delle migliaia di donne congolesi che hanno fatto esperienza della bestialità di cui è capace l’uomo per la smania di potere.

Il fatto è che, tra le miniere d’oro, diamanti e coltan di cui è ricchissimo il sottosuolo congolese, che tu abbia 5 o 50 anni, ogni giorno rischi di finire tra le mani sadiche di un boia che voglia giocare sul tuo corpo la sua partita per la disumanità: magari deciderà di spargere benzina sul tuo apparato genitale per dargli fuoco dopo averti stuprata, o, chissà, di sfregiare i tuoi seni; può darsi che sceglierà di usare una baionetta o un coltello per torturarti; forse vorrà costringere tuo fratello o tuo figlio a violentarti, o magari chiamerà con sé altri 10 uomini perché uno dopo l’altro facciano di te il loro gioco dell’orrore. È l’apogeo nella gerarchia degli abomini della guerra.

Il dr Mukwege con alcune delle sue pazienti (da Nigrizia.it)«Credo che fare questo al corpo di una donna non c’entri niente con il desiderio sessuale. È piuttosto un desiderio di distruzione» ripeteva nel 2012, di fronte all’assemblea delle Nazioni Unite, il dottor Denis Mukwege, lo scorso dicembre finalmente insignito del Premio Nobel per la Pace per il suo essere le mani che rattoppano i corpi violati delle donne e la voce che urla contro l’indifferenza che l’opinione pubblica e la comunità internazionale indegnamente riservano loro.

Le stuprate congolesi «sono come un fazzoletto strappato. Si devono riprendere i fili e riallacciarli uno a uno» – spiega, intervistato dal TPI,  il massimo esperto al mondo in lesioni ginecologiche pediatriche (la più piccola delle sue pazienti aveva appena 6 mesi) e in mutilazioni genitali causate dallo stupro di gruppo nelle donne adulte.

Il fatto è che, nonostante alla guerra congolese si sia ufficialmente messo fine con gli accordi di Sun City nel 2002, l’Eldorado d’Africa non ha mai smesso di essere terra di lotte e saccheggi. Chiunque ne brami il controllo ci si avventa sopra come un avvoltoio. E le donne, ora come allora, sono la carne perfetta da divorare. Violentarle pubblicamente, infettarle, renderle madri di figli del sopruso significa umiliare, vessare, costringere a non esistere l’intera comunità a cui appartengono.

Addensare l’aria di paura e di vergogna vuol dire obbligare la gente a fuggire abbandonando le proprie terre, vuol dire schiavizzare chi resta. Equivale a strapparle il futuro. È una strategia di annientamento della società. Il corpo delle donne diventa luogo e simbolo del conflitto: uno stupro ogni mezz’ora si registrava nel 2015, che non è neanche stato l’anno peggiore per le donne congolesi.

20141015PHT74186-clL’uomo che ripara le donne ha sempre definito gli stupri di cui da vent’anni, al Panzi Hospital, a Bakavu, nel Sud Kivu, cura le lacerazioni provocate sui corpi delle vittime, «non effetti collaterali della guerra, ma crimini di guerra veri e propri». Ne ha curate oltre 40mila, e, a Il Manifesto, nel 2014, quando ricevette dal Parlamento europeo il Premio Sakharov per la libertà di pensiero come difensore dei diritti umani, denunciava che «questi stupri sono come delle firme: è possibile distinguere se la violenza è opera di un gruppo o di un altro».

Una tattica di guerra ignobile, tanto a fondo penetrata nel tessuto sociale da essersi tradotta nella normalità del vivere comune. Dilaga come una peste, silentemente distrugge come un cancro. E nessuno sembra esserne responsabile: lo stupro è ormai una consuetudine tollerata a cui ci si è di fatto abituati, e l’impunità regna incontrastata, o quasi.

IMG-20171110-WA0002Di «crimini contro l’umanità attraverso la violenza carnale» parla per la prima volta, nel dicembre del 2017, la storica sentenza che ha condannato all’ergastolo 11 membri del gruppo armato facente capo all’ex deputato provinciale Frederic Batumike, riconoscendoli quali responsabili delle brutali violenze commesse tra il 2013 e il 2016 ai danni di 46 bambine tra i 2 e gli 11 anni nel villaggio di Kuvumu, nel Sud Kivu: «un dramma così devastante che dovrebbe togliere il fiato a chiunque ne venga a conoscenza – queste le parole dure come pietre di Zawada Bagaya Bazilianne, consulente legale della Fondazione Panzi – [..] venivano nel cuore della notte, rapivano le bambine, poi le violentavano e infine le lasciavano lì, dove avevano compiuto la violenza».

Ogni giorno, da vent’anni, le donne congolesi combattono una guerra infame e dimenticata. Soffrono e lottano per sopravvivere. Non si arrendono, mentre il silenzio mediatico che avvolge la catastrofe che le logora, si abbatte su di loro come l’ennesimo inaccettabile oltraggio. Un vero e proprio «genocidio sessuale» – come lo definiva l’ex Segretario generale Onu Ban Ki-Moon – si  consuma inesorabilmente nell’indifferenza, che significa connivenza, dell’opinione pubblica internazionale.

«La prima paziente accolta all’ospedale di Panzi era una vittima che aveva ricevuto un colpo di arma da fuoco nei suoi organi genitali. La violenza macabra non ha limiti. Quella violenza non si è mai fermata. Quello che è successo e che continua oggi in Congo è stato reso possibile dall’assenza di uno stato di diritto, dal crollo dei valori tradizionali e dal regime di impunità, specialmente per chi è al potere – tuona a Oslo il dottor Mukwege, dal presidente del comitato per l’assegnazione del Nobel Reiss Andersen descritto, insieme all’attivista yazida Nadia Murad, come un campione di dignità umana – Non sono solo gli autori delle violenze a essere responsabili dei loro crimini, ma anche quelli che scelgono di distogliere lo sguardo. Il popolo congolese è umiliato e maltrattato da oltre due decenni, e la comunità internazionale vede e sa».

In vent’anni di guerra, il Congo si è fatto laboratorio di inumanità. Il Paese con le risorse naturali tra le più ricche del pianeta, è anche quello con l’indice di sviluppo umano tra i più bassi: metalli rari e preziosissimi abbondano e uccidono. In Congo un bambino ogni 10 muore prima di compiere i 5 anni; 7 milioni di persone stanno morendo di fame; centinaia di migliaia di donne sono state brutalizzate; oltre 6 milioni di vite sono già state spezzate.

Tutto in nome del business delle miniere: la maledizione della ricchezza, la chiama qualcuno. Per l’occidente, il disastro che si sta consumando in Repubblica Democratica del Congo non fa notizia. Eppure oltre 400mila stupri, come i «non meno di 617 crimini di guerra e crimini contro l’umanità» di cui parla il rapporto Mapping stabilito dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani a cui fa riferimento Mukwege nel documento affidato il 4 gennaio scorso al Prof. Barone dell’Università dell’Aquila, raccontano del disprezzo assoluto per la dignità e la vita, dell’inesistenza di ogni confine morale, della volontà spregiudicata di devastare il presente e saccheggiare il futuro.

Dovremmo tutti portare il lutto per quanto stiamo permettendo che accada, perché «lo stupro non è una questione che riguarda solo le donne, ma la sopravvivenza della nostra umanità» – come diceva a Ferrara nel 2014, ospite del Festival di Internazionale, il dottore di Panzi, bandiera nel mondo della lotta contro la violenza sessuale. 

«Abbiamo tutti il potere di cambiare il corso della storia quando le convinzioni per cui lottiamo sono giuste» – ripete con fermezza, durante il suo discorso carico di denuncia e di speranza, il Premio Nobel, come a volerci smuovere dall’immobilismo delle nostre coscienze. E allora che le sue parole siano da monito per tutti noi, che non abbiamo il diritto di chiudere gli occhi.