De-PIL-ata?

Di Francesco Paolo Marco Leti – Le Istituzioni nazionali e internazionali che hanno diramato i propri bollettini hanno, in parte, risposto a questa domanda. Infatti, si è passati dall’1,5% del Documento di Economia e Finanza (DEF), all’1% della legge di bilancio, allo 0,6% del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e Banca d’Italia, allo 0,2% della Commissione Europea e, per concludere, allo 0,3% di Fitch Ratings.

 Le ragioni sono varie e riguardano sia aspetti interni al Paese, sia la componente estera. Una delle risposte a questa domanda la possiamo trovare nella nota congiunturale dell’Istat sulla produzione industriale. Al suo interno, si legge come «a dicembre 2018 si stima che l’indice destagionalizzato della produzione industriale diminuisca dello 0,8% rispetto a novembre. Nel complesso del quarto trimestre il livello della produzione registra una flessione dell’1,1% rispetto ai tre mesi precedenti». Come se non bastasse, si aggiunge che, «corretto per gli effetti di calendario, a dicembre 2018 l’indice è diminuito in termini tendenziali del 5,5%».

Il dato mancante tra quelli menzionati, è quello del mese di novembre del 2018, il peggiore dal 2013. Questa caduta della produzione industriale – che riguarda indistintamente tutti i settori in analisi – non può che avere un impatto notevole sul PIL: come detto in un precedente articolo, quello che non viene prodotto oggi, non può essere venduto in futuro.

Un’altra chiave di lettura delle ragioni è fornita dal bollettino economico della Banca d’Italia, che indica, fra le cause principali, le tensioni commerciali internazionali e la Brexit: «Sulle prospettive globali gravano i rischi relativi a un esito negativo del negoziato commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina, al possibile riacutizzarsi delle tensioni finanziarie nei paesi emergenti e alle modalità con le quali avrà luogo la Brexit». Nonostante la tensione estera, però, la Banca d’Italia non rileva ancora effetti sulle partite correnti (le esportazioni del Paese), che restano in crescita, salvo il calo degli ordinativi esteri (desumibili dal crollo della produzione industriale).

Inoltre, marcato è il calo della domanda nazionale, «in particolare degli investimenti e, in misura minore, della spesa delle famiglie». Le relative cause non sono chiare: sicuramente non sono imputabili a una stagnazione salariale, poiché Banca d’Italia stessa afferma come i salari siano in “moderata crescita”.

Una delle imputate resta la forte instabilità del mercato dei titoli di Stato, considerata una forte minaccia alla crescita dell’anno in corso: «Oltre ai fattori globali di incertezza già ricordati, i rischi al ribasso per la crescita sono legati all’eventualità di un nuovo rialzo dei rendimenti sovrani, a un più rapido deterioramento delle condizioni di finanziamento del settore privato e a un ulteriore rallentamento della propensione a investire delle imprese».

International Monetary Fund CyberattackQuesta minaccia della pressione sul mercato dei titoli di Stato è condivisa in toto dal World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che sottolinea come «Italian spreads have narrowed from their October–November peaks but remain high. A protracted period of elevated yields would put further stress on Italian banks, weigh on economic activity, and worsen debt dynamics».

Anche l’FMI pone l’accento sulle dinamiche esterne per spiegare la riduzione del tasso di crescita italiano ed europeo, sottolineando, soprattutto, il rischio di una soluzione non concertata di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea (UE) – il cosiddetto no deal – e il suo possibile effetto dirompente sui mercati.

Rispetto alla Banca d’Italia, il Fondo Monetario indica alcune soluzioni per potenziare la crescita, riferendosi, però, al complesso dei Paesi sviluppati. Secondo l’FMI, questi Paesi dovrebbero mettere in campo strategie volte a «emphasize measures that boost productivity, raise labor force participation, particularly of women and, in some cases, youth, and ensure adequate social insurance, including for those vulnerable to structural transformation».

Anche Fitch Ratings concorda nell’indicare le tensioni internazionali commerciali e la Brexit come la fonte principale della diminuzione delle previsioni di crescita sia italiane, sia europee, pur indicando, in particolare nel nostro Paese, la presenza di un accenno di riduzione del credito verso il settore privato.

La peggiore indicazione di crescita per il nostro Paese è arrivata dalla Commissione Europea. Nelle previsioni economiche prospettate dall’Istituzione europea, si sottolinea come la diminuzione marcata di quelle relative alla crescita sia attribuibile soltanto in parte alle tensioni internazionali. Per quel che concerne il calo più recente, ne attribuisce la responsabilità all’incertezza causata dalle politiche del Governo, in particolare, per gli effetti provocati sui rendimenti dei titoli di Stato e sul costo di rifinanziamento del nostro debito pubblico.

Al di fuori dei circuiti istituzionali, le previsioni di crescita cominciano a dipingersi di tinte ancor più fosche. Qualche giorno fa, il Sole24Ore ha rilanciato la notizia di come una delle principali agenzie di analisi del mercato internazionale, Oxford Economics, abbia indicato per il nostro Paese una crescita economica sostanzialmente nulla per l’anno in corso. Fra le cause indicate, oltre ai fenomeni internazionali già visti, vengono messe sul banco d’accusa le politiche economiche del Governo.

Si sottolinea, in particolare, come i due provvedimenti cardine della recente manovra finanziaria avrebbero uno scarsissimo effetto per il 2019, a causa della loro attivazione per un breve periodo, ossia la seconda metà dell’anno. Per gli anni successivi a quello corrente, le indicazioni sarebbero ancora peggiori, poiché il finanziamento delle due misure verrebbe quasi completamente dall’aumento dell’IVA, con una conseguente forte depressione dei consumi. L’incertezza circa le politiche economiche del Governo, senza considerare la possibilità di una crisi politica, potrebbe impattare ancora una volta sul mercato dei titoli di Stato, con effetti a cascata sia sul settore bancario che sugli investimenti delle imprese.

Concludendo, sembrerebbe prospettarsi per il nostro Paese un anno non esattamente definibile di boom economico. Vi sarebbero, al contrario, evidenti rischi che la recessione tecnica sviluppatasi negli ultimi due trimestri dell’anno, possa ripetersi e trasformarsi in una recessione economica. A peggiorare la situazione è la quasi assoluta impossibilità di controllare, determinandone gli esiti, i fattori internazionali, il maggiore rischio all’orizzonte, Brexit su tutti.

La speranza è anche che il Governo attui politiche volte a un rasserenamento economico, senza la ricerca di continui conflitti interni ed europei, che tanti danni creano al rifinanziamento del debito pubblico e, a cascata, alla nostra economia. Speriamo che la nostra economia non venga ulteriormente de-PIL-ata.