Migranti ambientali: il disastro sottostimato del cambiamento climatico

Di Sara Sucato – Negli ultimi giorni, si è discusso molto in merito alla #tenyearschallenge: una delle innumerevoli sfide del web che permette agli utenti, fruitori dei social media, di mettere a confronto foto recenti e istantanee risalenti a una decina d’anni prima. Un gioco fine a sé stesso, trasformato però in una campagna globale di sensibilizzazione al cambiamento climatico da associazioni che, da tempo, operano nel settore.

2WWF e Greenpeace in prima linea, tramite i loro account Twitter, hanno reso virali confronti di grande impatto visivo: foreste e ghiacciai la cui superficie si è ridotta del 50% in dieci anni, specie estinte e animali che non riescono ad adattarsi ai nuovi habitat, evidentemente non naturali.

L’essere umano, in primis, è coinvolto in questo stravolgimento climatico. Secondo il rapporto Climate Change, Migration and Displacement redatto da Greenpeace Germania nel 2017, ogni anno 21,5 milioni di persone sono costrette a lasciare le proprie case a causa di siccità, tempeste o alluvioni. Solo nel 2015, il numero si è rivelato due volte maggiore rispetto alle persone costrette a fuggire da guerre e violenze. In riferimento a tale situazione, si parla di “migranti ambientali”.

In base a una definizione elaborata dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), i migranti ambientali sono «persone o gruppi di persone che, soprattutto a causa di modifiche ambientali, progressive o repentine, che influiscono negativamente sulla loro vita o sulla loro condizione di vita, sono obbligate ad abbandonare la loro residenza abituale, o scelgono di farlo, sia temporaneamente che permanentemente, spostandosi sia entro il proprio Paese che all’estero».

Una descrizione chiara e puntuale, che però non conferisce alcuna tutela ai protagonisti di queste migrazioni. Non esiste, infatti, una Convenzione internazionale che protegga i soggetti che vivono in zone a rischio o colpite da disastri naturali. Né può essere concesso loro lo status di rifugiati, poiché le cause ambientali non sono previste dalla Convenzione di Ginevra del 1951, in base alla quale le persone cui spetta il diritto di asilo sono solo quelle costrette a fuggire da un fondato timore di persecuzione (da parte di uno Stato) per cinque ragioni: razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un particolare gruppo sociale.

Alla base di questa tipologia di fenomeno migratorio vi è il cambiamento climatico che passa attraverso il degrado ambientale, cui contribuiscono fattori come lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali.

Alla luce di tutti questi elementi, gli attivisti impegnati nella tutela dell’ambiente hanno espresso la loro preoccupazione in merito a diverse situazioni: per quanto riguarda i conflitti già in atto, esasperati dallo sfruttamento delle risorse e i pericoli legati alle amministrazioni senza scrupoli.

bolsonaro-tereza-cristinaA richiamare l’attenzione sono state le recenti dichiarazioni e i conseguenti provvedimenti del neo-governo Bolsonaro. Il presidente, senza perdere tempo, sta compiendo i primi passi per aprire la foresta amazzonica allo sfruttamento agricolo e minerario e alle grandi dighe idroelettriche, riducendo tutti i vincoli posti a difesa della natura e delle popolazioni indigene.

Queste non potranno più gestire i loro confini, funzione appartenuta fino a poche settimane fa alla Fondazione Nazionale per gli Indigeni e ora affidata al ministero dell’agricoltura guidato da Tereza Cristina Dias, cui è stato accorpato il ministero dell’ambiente.

Con ogni probabilità, in tale contesto giuridico, aumenteranno le violenze e le pressioni nei confronti degli indigeni per spingerli ad abbandonare le proprie terre, che costituiscono il 15% della superficie del Paese, zone in cui, ancora per poco, è vietato lo sfruttamento agricolo e minerario.

Questi provvedimenti potrebbero, inoltre, avere un grande impatto in termini di cambiamento climatico, essendo la Foresta Amazzonica il polmone verde del mondo e innescando così un circolo vizioso le cui conseguenze potrebbero essere imprevedibili e inarrestabili.

1.001Per alcuni, la causa ambientale a monte delle diaspore odierne, non è paragonabile a una persecuzione religiosa o a una guerra civile. Le vittime dei cambiamenti climatici, non essendo soggette a violenza, non sono degne di beneficiare della tutela che deriva dalla protezione internazionale. Inoltre, l’espansione delle condizioni per la concessione dello status di rifugiato comporterebbe nuovi costi e diverse risposte in ambito politico e sociale.

Tuttavia, i migranti ambientali continuano a esistere e proliferare, nonostante la definizione incerta della loro condizione. Vengono accolti con mezzi poco adeguati, da Paesi impreparati che indubbiamente necessitano del sostegno internazionale per affrontare una situazione che, al di là di inutili allarmismi, ha tutte le carte in regola per trasformarsi in una crisi di ingente portata.


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