Così succede, e così si cambia, in Pakistan

Di Silvia Scalisi – In Pakistan succede che una donna assetata non possa bere, neppure toccare, lo stesso bicchiere d’acqua che poi passerà alle sue compagne, in un’afosa giornata estiva di duro lavoro nei campi. In Pakistan succede che un banale litigio verbale possa portare in carcere. In Pakistan succede che per una frase definita scomoda si possa essere condannati a morte per blasfemia. In Pakistan, succede.

È accaduto già centinaia di volte dal 1986, anno in cui il presidente Muhammad Zia-ul-Haq ha aggiunto all’art. 295 del Codice Penale pakistano i commi b) e c), fuorviando il senso (e quindi l’applicazione) di una norma che risaliva al 1860 e che intendeva tutelare tutte le confessioni religiose. Ben presto tale modifica, che ha manomesso il reato di blasfemia, ha portato conseguenze devastanti.

La norma, infatti, ha iniziato a essere utilizzata sia come mezzo di persecuzione delle minoranze (non solo quella cristiana, ma anche quella indù, e quella ahmadi), sia come mezzo per risolvere questioni personali anche tra i musulmani stessi, colpa di una formulazione molto vaga e imprecisa, che si presta alle più turpi strumentalizzazioni (basti pensare al fatto che per essere arrestati è sufficiente un’accusa, in assenza di onere della prova).

Non è un caso che già in anni recenti si sia iniziato a discutere quantomeno di una riforma che scoraggi l’uso distorto di tale norma, accettando il fatto che un’abrogazione totale è, almeno allo stato attuale, praticamente impossibile, date le credenze ancora troppo radicate nella mente degli estremisti islamici, e non solo.

Ma torniamo alla storia della donna che ha acceso i riflettori di mezzo mondo su una questione così drammatica e tragicamente reale. È il giugno del 2009 quando Asia Bibi ha un diverbio con alcune donne musulmane che la ritengono inadatta a portare un bicchiere con dell’acqua, perché in quanto cristiana non può toccare il recipiente dal quale poi berranno le sue compagne. Pochi giorni dopo le donne denunciano Asia, sancendo l’inizio del suo calvario durato quasi 10 anni, accusandola di aver pronunciato delle affermazioni blasfeme nei confronti del Profeta Maometto.

Asia viene picchiata, chiusa in uno stanzino, abusata e poi arrestata nel villaggio di Ittannwalai, sebbene le accuse a suo carico siano fumose, e le testimonianze scarse e poco chiare, e viene portata nel carcere di Sheikhupura. Nel novembre del 2010 viene emessa la sentenza di primo grado che conferma l’accusa per blasfemia; la famiglia di Asia, convinta della sua totale innocenza, presenta ricorso davanti l’Alta Corte di Lahore.

Dopo circa un anno le condizioni di Asia in carcere appaiono pessime, a livello igienico, fisico e psicologico: una donna distrutta nel corpo e nella mente, costretta a vivere in un costante limbo tra la vita e la morte, una vita irrimediabilmente devastata, ma che ancora non si arrende. È il 2013, Asia viene trasferita per ragioni di sicurezza nel carcere femminile di Multan. L’anno seguente l’Alta Corte di Lahore conferma la pena di morte per lei.

Ma non tutto è perduto: pochi mesi dopo uno degli avvocati di Asia, Sardar Mushtaq Gill, lamenta gravissime irregolarità processuali, oltre che discriminazioni palesi nei confronti di Asia per via del suo credo religioso. Siamo nel giugno del 2015 quando la Corte Suprema sospende la pena capitale, rimettendo tutto in discussione.

La luce si è vista soltanto qualche giorno fa, finalmente: il 31 ottobre 2018 con una sentenza storica Asia viene assolta dalla Corte Suprema, che ne ordina la scarcerazione immediata. Scarcerazione che, ad oggi, non è ancora potuta avvenire a causa dei profondi scontri e manifestazioni violente avvenute in città.

Tra i principali promotori dei violenti scontri c’è Khadim Hussain Rizvi, capo del partito islamista Tehreek-e-Labbaik Pakistan (TLP), che ha dichiarato di stare organizzando una protesta nazionale contro l’assoluzione della donna.

A dare conferma del clima di tensione e odio che si sta diffondendo, giunge la notizia di qualche giorno fa riguardante Saif-ul-Mulook, avvocato di Asia Bibi, costretto a fuggire dal Pakistan per le pesanti minacce di morte ricevute dopo la sentenza che ha assolto la donna: «Nello scenario attuale mi è impossibile vivere in Pakistan. Devo restare vivo per continuare la battaglia giudiziaria di Asia Bibi», avrebbe dichiarato prima di salire su un aereo.

Ancora lunga appare, dunque, la strada che Asia dovrà percorrere per riprendere a vivere una vita che possa definirsi normale: infatti, non sono isolati quei casi di persone scagionate dall’accusa di blasfemia che vengono uccise successivamente alla scarcerazione da fanatici pronti ad agire in nome di una giustizia distorta e malsana.

Ma in questa drammatica vicenda possono trovarsi anche dei lati positivi: Asia sarebbe già morta se non ci fosse stato l’intervento di musulmani coraggiosi e illuminati, che esistono e operano in Pakistan, nonostante tutto.

Pensiamo al presidente della Corte Suprema, Mian Saqib Nasir, magistrato musulmano che ha assolto Asia, pur consapevole che questo avrebbe attirato su di sé le antipatie e la rabbia degli estremisti islamici, affermando di essere giudice «non solo per i musulmani», e rifiutandosi di condannare la donna senza prove sufficienti che mostrassero la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.

Pensiamo a chi ha pagato con la vita l’essersi schierato dalla parte di questa donna: Salmaan Taseer, governatore del Punjab che si era impegnato a revisionare le norme sulla blasfemia, assassinato nel 2011 da una delle sue guardie del corpo; Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze religiose, assassinato qualche mese dopo; Haroon Barkat Masih, direttore della ONG Masih Foundation che ha assistito legalmente e materialmente Asia e la sua famiglia.

Nonostante l’allerta resti ancora alta, e nonostante non possa dirsi che la storia di Asia sia del tutto conclusa, non ci resta che sperare che le sofferenze di questa donna non risultino vane; che tutto ciò abbia svegliato le menti intorpidite di una società così compromessa quale è quella pakistana; che tutto questo possa far innescare una scia virtuosa che porti al rispetto e all’uguaglianza oltre ogni discriminazione, religiosa e non.