Il problema demografico in Italia: pochi giovani e “arresi”, mentre gli anziani li “sostengono”

Di Ugo Lombardo – Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Italia era un paese molto giovane ed il suo tasso di natalità era al di sopra della soglia di sostituzione – ovvero 2,1 figli per donna – e con una speranza di vita che non superava i 70 anni. In materia di invecchiamento, la relativa causa è da rintracciarsi nella combinazione di due elementi: un’aspettativa di vita in crescita e un sempre più basso livello di natalità, generato da un radicale cambiamento nei modelli di fecondità.

Il processo di denatalità è cominciato a partire dal 1965 e, ad incidere pesantemente su questo, è stato il periodo di benessere economico iniziato nel secondo dopoguerra, di cui tutti hanno goduto a partire dagli anni ‘60. Come si può notare dal grafico sottostante, infatti, la base della piramide si è notevolmente ridotta, segno di una minore propensione delle nascite. Dalle piramidi del 1965 e del 2015, c’è stato un graduale spostamento generazionale verso l’alto della struttura demografica italiana, per l’entrata di tutta la generazione che ha usufruito del boom economico degli anni Sessanta (i baby boomers), nella fascia degli over 65.

Questo dimostra la tendenza di fondo dei comportamenti riproduttivi, mettendo in risalto che il numero medio di figli per donna, calcolato per generazione, nel nostro Paese è in continua diminuzione. Secondo la versione provvisoria dell’Audizione del Presidente f.f. dell’Istituto nazionale di statistica, Maurizio Franzini, sull’attività conoscitiva preliminare all’esame del disegno di legge relativo al bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e al bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021, (C. 1334 Governo), infatti, dai 2,5 figli delle donne nate subito dopo la Grande Guerra, si passa ai 2 figli per donna delle generazioni dell’immediato secondo dopoguerra e si raggiunge il livello stimato di 1,4 figli per quelle nate a metà degli anni ‘70.

È abbastanza interessante, inoltre, il dato per cui la quota di donne senza figli è in continuo aumento da una generazione all’altra e, secondo l’Istat, era di circa una su 10 per le nate nel 1950, mentre per le nate negli anni Settanta è cresciuta a circa 1 su 5. Parallelamente, sono aumentate, sebbene di poco, le donne con un solo figlio, mentre sembra crollare il numero di donne con almeno due figli.

Tutto ciò ha inevitabilmente avuto, e continua ad avere, una serie di ripercussioni reali sul mercato del lavoro, sull’economia, sui rapporti intergenerazionali ed, infine, sul sistema previdenziale e pensionistico italiano. È la prima volta, infatti, che in Italia una classe generazionale così grande sia entrata in età pensionabile, estendendosi nel suo limite superiore per mezzo dell’aumento dell’aspettativa di vita.

Questo evento si è reso possibile per un sistema di welfare basato su certe condizioni demografiche precedenti che, oggi, non sono più esistenti. L’aspetto negativo di questa situazione è quello per il quale gli effetti del sistema di welfare così come organizzato, ricadranno, negli anni futuri, sulle successive giovani generazioni (Eroi, Millenials e Zero Generation) uniti, inoltre, alla mancanza di un ricambio generazionale che ha paradossalmente modificato lo stesso significato del termine “giovane”. Oggi, infatti, si parla di apprendisti a trent’anni e “giovani” industriali oltre i quaranta. In sostanza, si chiamano ragazzo e ragazza persone che, in realtà, hanno un’età abbondantemente matura.

L’art. 49 del disegno di legge relativo al bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e al bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021, ha come obiettivo principale l’aumento demografico, fornendo sostegno alle famiglie con un terzo figlio nato negli anni 2019, 2020 e 2021.

Secondo le stime fatte dall’Istat, però, se si ipotizzano costanti sia i tassi di fecondità osservati nel 2017 per ordine di nascita, sia la popolazione femminile residente tra i 15 e 49 anni al 1 gennaio 2018, risulta che la previsione di nascita nel 2019 di terzi figli sia di circa 51 mila. Questo numero oscillava intorno ai 53 mila tra il 2013 e 2015 e intorno a 51 mila tra il 2016 e 2017, confermando da un lato la stagnazione demografica italiana e, dall’altro, il conseguente impatto negativo in termini d’indipendenza economica dei giovani non motivati a costruirsi una famiglia.

In senso anagrafico, infatti, i giovani in Italia sono molto pochi e, rispetto al passato e ai loro coetanei europei, impiegheranno più tempo per rendersi autonomi economicamente. Il Rapporto 2017 Il divario generazionale tra conflitti e solidarietà della Fondazione Bruno Visentini, – che l’11 dicembre presenterà presso l’Università LUISS Guido Carli di Roma il II Rapporto 2018 intitolato “Il Divario Generazionale – un patto per l’occupazione dei giovani” – ha messo proprio in risalto come stia aumentando il divario fra le nuove generazioni da un lato, e la generazione definita “baby boomers” dall’altro.

Dal Rapporto 2017 è risultato che, se le giovani generazioni nel 2004 impiegavano 10 anni per costruirsi una vita autonoma, nel 2020 ne impiegheranno 18, e nel 2030 addirittura 28, diventando nel prossimo futuro, soltanto ultraquarantenni indipendenti da un punto di vista economico. Questo dovrebbe far riflettere poiché l’Italia, con pochi giovani e scarsamente valorizzati, si troverà in posizione di svantaggio per affrontare le sfide poste dalla globalizzazione, che richiede continui e veloci adattamenti ai nuovi contesti che si presentano.

Non bisogna dimenticare che sono i giovani a rappresentare la parte più dinamica di una società, infrangendo le barriere della tradizione e dando una nuova lettura della realtà. In tal senso, basta citare le Primavere Arabe che hanno visto proprio i giovani attivarsi per il proprio futuro e di cui ne è un esempio proprio la Turchia. In Italia, invece, sembra che il conflitto generazionale si sia disattivato e le nuove generazioni, sentendosi private di un proprio futuro, appaiono incapaci di reagire, facendo venir meno la spinta al rinnovamento e provocando una sostanziale rigidità della società italiana, incapace di affrontare i cambiamenti della modernità in modo dinamico.


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