«Avreste dovuto vedere com’era vestita»

Di Silvia Scalisi – I cieli novembrini d’Irlanda sono stati scossi in questi giorni da una pioggia di proteste. Una pioggia che ha i colori del blu, del rosso, del giallo, del rosa, colori fatti di cotone, di pizzi e di merletti. Sono i colori della lingerie (sì, esatto, avete letto bene), della biancheria intima, più nello specifico proprio delle mutandine, di ogni forma e colore, che centinaia di donne hanno mostrato in segno di protesta.

Ma protesta per cosa? Facciamo un passo indietro. È di qualche settimana fa la notizia dell’assoluzione di un 27enne accusato di aver violentato una ragazzina di 17 anni in un vicolo della cittadina di Cork, affermando che il rapporto fosse stato consenziente.

Fin qui, nulla di strano: sono centinaia i casi di violenze che vengono giudicati quotidianamente dai tribunali di tutto il mondo; casi molto delicati, dove il confine tra verità e menzogna a volte può apparire incerto e fumoso; casi che necessitano un’attenzione particolare e scrupolosa.

ell St Nov 2018 _8Cos’è che ha scatenato, quindi, l’ondata di proteste e indignazione che dall’Irlanda sta attraversando tutta l’Europa, con la complicità dei social network che l’hanno resa virale? Cosa ha spinto le donne a sfilare in corteo verso il tribunale di Cork (ma anche a Dublino, Limerick, Waterford), brandendo la propria biancheria su cartelloni con la scritta “Questo non è un consenso”?

Il nodo della questione è semplice: Elizabeth O’Connell, avvocato dell’imputato, ha utilizzato nella propria arringa difensiva un riferimento all’abbigliamento intimo della vittima (un tanga nero di pizzo), alludendo (in maniera ben poco velata) al fatto che indossare un capo intimo del genere sarebbe un chiaro messaggio di volontà di avere un rapporto, o quantomeno lascerebbe intuire l’intenzione della vittima di avere un incontro con un uomo.

«Dovete guardare come era vestita: indossava un perizoma di pizzo nero. Questo non indica forse che la ragazza era attratta dall’uomo o che si aspettava di avere un incontro?», queste alcune frasi pronunciate dalla O’Connell.

5e0_redgoodconsentA quanto pare, tanto è bastato per insinuare tra i membri della giuria (formata da 8 uomini e 4 donne) il germe del dubbio che li ha spinti a optare per l’assoluzione.

La questione è balzata subito all’attenzione mediatica. Il gruppo Facebook Women of Ireland e l’account Twitter I believe her – Ireland hanno alimentato la protesta con l’hashtag #ThisIsNotConsent, che è arrivata alle aule del Parlamento irlandese.

Ruth-Coppinger-Dail-1-1068x623Infatti, qualche giorno dopo la sentenza, la deputata Ruth Coppinger durante una seduta ha tirato fuori dalla manica della giacca un tanga di pizzo blu mostrandolo a tutta l’aula: «Potrebbe sembrare imbarazzante mostrare un tanga qui; come pensate che si senta una vittima di stupro, quando in modo inappropriato viene mostrata la sua biancheria intima in tribunale?»

Ecco, inappropriato è proprio l’aggettivo giusto. Sebbene la protesta abbia avuto un’eco non indifferente, Noeline Blackwell, avvocato specializzato in diritti umani e capo esecutivo del Centro di Dublino contro la violenza sulle donne, fa notare come l’utilizzo di allusioni e stereotipi in tali casi sia all’ordine del giorno.

«Questi argomenti possono insinuare il dubbio nella mente di una giuria, e se si insinua un dubbio nella mente di una giuria, l’imputato verrà assolto […] Io non sto dicendo che l’assoluzione non sia stata perfettamente consona, ma che il fatto che queste storie siano introdotte nelle corti non è per nulla una sorpresa», ha dichiarato la Blackwell, auspicando una riforma del sistema giuridico sulla materia in questione. Non un caso isolato, dunque, non uno scandalo, bensì una pratica ben conosciuta, perché utilizzata troppo spesso nei tribunali.

È sconcertante vedere come ancora oggi non si riesca ad abbandonare lo stereotipo, il pregiudizio, che troppe volte sposta l’attenzione sulla vittima della violenza, colpevolizzandola: per gli atteggiamenti, il modo di vestire, il modo di parlare, finanche per quello che ha bevuto. Ancora oggi c’è quella vocina che risuona nella mente, costante e insistente: “se l’è cercata”.

È squallido che sia necessario utilizzare come strategia difensiva l’abbigliamento di una donna per giustificare uno stupro: davvero non ci sono altri argomenti, più consoni e validi, su cui costruire una difesa in modo meno superficiale, piuttosto che sottolineare un aspetto che dovrebbe essere assolutamente irrilevante, cioè gli indumenti della vittima?

Se è vero che in certe situazioni il corpo può lanciare messaggi non verbali spesso anche espliciti – e questo vale sia per gli uomini, che per le donne, beninteso –, è innegabile che non si può strumentalizzare un capo di abbigliamento, definirlo troppo sexy, e utilizzarlo come un lasciapassare per un consenso che non c’è.

Vogliamo sperare che siano stati anche altri gli elementi che hanno indotto la giuria ad assolvere l’imputato, sebbene la speranza più grande resti quella di spegnere, una volta per tutte, quell’assordante e scomodo “se l’è cercata”. Ma per questo la strada è, probabilmente, ancora lunga.