Abolita la politica del figlio unico: cambio di rotta per la Cina?

Di Rita Blandino – I fattori che hanno permesso alla Cina di occupare la posizione attuale sono numerosi, e traggono origine da strategie di crescita messe a punto dalle più avanzate potenze straniere, interessate a favorire la fuoriuscita di numerosi Paesi da una condizione di sottosviluppo, nonché da numerose politiche interne, frutto degli sforzi del Partito Comunista Cinese.

Il connubio tra queste politiche strategiche ha favorito un cambiamento profondo del Paese che si è tradotto in una crescita generalizzata e trova nel prodotto interno lordo il dato più sorprendente. La Cina ha infatti registrato una percentuale di crescita del suo PIL pari a circa il 10% annuo, percentuale che si è andata poi lentamente riducendo, mantenendosi tuttavia ad un livello ampiamente superiore rispetto alle percentuali registrate dai Paesi più avanzati.

Chiaramente, tale successo porta con sé non solo luci ma anche ombre; a tal proposito il governo cinese è stato oggetto di numerose critiche non tanto per il taglio politico scelto, ma in particolare per l’attuazione di leggi che rischiano di indebolire il Paese piuttosto che favorirlo.

La politica del figlio unico, introdotta nel 1979, è tra queste – perché prevedeva l’introduzione di un limite inderogabile relativo alla possibilità di avere figli stabilendo, cioè, che una coppia potesse avere al massimo un figlio.

Le ragioni di questa manovra si ricollegano alla necessità di ovviare a quello che venne definito come il problema della sovrappopolazione, inteso come una crescita non gestibile del numero di abitanti nel Paese e motivato da un dato allarmante secondo cui dal 1949 al 1976 si passò da 540 a 940 milioni di abitanti. La politica in questione venne allora introdotta per frenare il tasso di crescita della popolazione e così limitare gli eventuali problemi derivanti dalla scarsità di risorse.

Dall’introduzione di questa legge derivarono gravi sanzioni e, inoltre, l’attuazione di contromisure atte non solo a scoraggiare la procreazione, ma anche a prevenirla. Secondo varie stime in effetti dal 1980 al 2014, 324 milioni di donne furono obbligate a trattamenti chirurgici per l’introduzione di strumenti contraccettivi (IUD), e 108 milioni vennero sterilizzate. A questi dati si aggiunge poi il numero di aborti che ammonterebbe a circa 300 milioni e che riguarderebbe in buona parte dei casi il cosiddetto aborto selettivo, consistente nella volontà delle singole famiglie di avere un figlio maschio piuttosto che una femmina.

Le critiche mosse a tale iniziativa furono numerose, ma in ogni caso non impedirono il permanere della legge per più di 30 anni. Bisognerà in effetti aspettare il 2013 per assistere ad un rilassamento delle condizioni applicate ed il 2016 per la sua totale abolizione, legata ad una seppur tardiva ma comunque maturata consapevolezza dei danni che questa strategia sociale avrebbe provocato nel tempo.

In effetti se da un lato l’introduzione della legge venne motivata dalla necessità di mantenere un rapporto positivo fra risorse disponibili e numero di cittadini, dall’altro lato diventarono sempre più tangibili gli effetti economici potenzialmente responsabili di condizioni avverse.

Il primo effetto, già visibile, è il rallentamento della crescita della popolazione. Effetto ben visto dalla classe politica cinese ma avente al suo interno aspetti critici nel momento in cui questo si tradurrà in una riduzione della forza lavoro disponibile. In effetti basta ricordare che uno degli aspetti fondamentali della crescita del Paese è stato proprio la disponibilità di manodopera a basso costo e dato che potrebbe variare radicalmente nel momento in cui il personale a disposizione si riduce, la domanda interna cresce e il costo del lavoro aumenta determinando effetti rilevanti sulla capacità del Paese di essere competitivo sui mercati internazionali.

Si aggiunge a questo, quello che a parere di molti viene considerato come un potenziale buco generazionale che si sta già verificando e che vede da un lato la presenza di uomini scapoli con gravi difficoltà a trovare una compagna della stessa età e, dall’altro, coppie che nonostante le novità decidono di avere pochi figli.

In questo modo, alla riduzione della forza lavoro disponibile si ricollega un basso tasso di natalità (intorno all’1,5%), e così il progressivo invecchiamento della popolazione. Attualmente in effetti risulta che un cinese su 4 è già in un’età tale da non poter più lavorare e che dal 2015 al 2030 si assisterà ad un aumento della popolazione con età pari o superiore a 60 anni di circa 100 milioni.

Queste condizioni portano con sé rilevanti implicazioni per tutta la classe lavoratrice che dovrà farsi carico di spese relative al mantenimento della popolazione anziana. In tal senso è come se il figlio unico si trovi a dover farsi carico del mantenimento di genitori e nonni, dando vita a quello che oggi viene definito come il Problema 4-2-1, ossia un problema rappresentato da spese sanitarie e pensionistiche crescenti colmate dal lavoro di una sola persona, il figlio unico appunto.

Queste realtà sempre più tangibili fanno chiarezza sulla natura delle implicazioni derivanti dall’introduzione di tale politica. Inoltre, la visibilità dei suoi effetti, in buona sostanza celati da un governo da sempre attento a non far trapelare notizie scomode relative all’andamento generale del Paese, sembra avere una natura progressiva e sempre più critica. L’inevitabile cambio di rotta è dunque la necessità di disinnescare un processo che sta già mostrando i suoi effetti, il cui peso e la cui rilevanza saranno visibili sull’andamento economico nel lungo periodo.