L’Italia ha scelto: sarà “Dogman” il nostro stendardo agli Oscar 2019

Di Felicia Modica – Dietro la pellicola di Matteo Garrone – già premiata a Cannes per miglior attore protagonista a Matteo Fonte – c’è molto di più della provocatoria rappresentazione del celeberrimo “delitto della Magliana”. Ironicamente è proprio la realtà di quei fatti che nel 1988 scossero il paese, a superare l’immaginazione cinematografica.

L’efferatezza brutale che guidò le mosse di “er canaro” (al secolo Pietro De Negri) nei confronti dell’ex pugile e terrore del quartiere, Giancarlo Ricci, è solo superficialmente – quasi timidamente – affrontata da un film più profondamente atto a rappresentare la fragilità dell’animo umano di fronte al male. Le tinte psicologiche che il regista conferisce ai personaggi meritano una riflessione che va oltre la storia, da cui la pellicola trae ispirazione.

Il protagonista che fin dai primi attimi della storia si profila è tutt’altro che un pericoloso criminale, piuttosto un pover’uomo: mite, magrolino, indifeso. Una vocina stridula e dolcemente bambinesca che accompagna il ricorrente «amooore» ai suoi amici a quattro zampe, proprio come facciamo nel nostro intimo tutti noi.

Marcello è completamente dedito all’amore per la figlia piccola ed alla passione per il suo mestiere, che svolge in un negozio di tolettatura per cani alla periferia di Roma. Un uomo povero, che per arrotondare il piccolo incasso spaccia cocaina ed incrocia il suo cammino con Simone, il maligno delinquente del quartiere.

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Nel 1963, è Hanna Harendt che per prima decostruisce il concetto di malvagità, per cercare di dare una sua interpretazione filosoficamente plausibile alle atrocità che hanno dato luogo al genocidio ebraico. Ella trova il coraggio di andare oltre la de-umanizzazione di Hitler, di Eichmann o dei capi nazisti: non sono alcuni, unici esemplari di mostri che riescono a perpetrare atrocità, quanto l’atrocità ad essere banalmente sollevata da determinate circostanze normalizzate in noi. Abbiamo tutti dentro una bestia sopita, sta nella facoltà di pensare la vera differenza, e ciò che ci rende…umani.

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La sottile linea che la trama del film traccia tra umanità e bestialità è ciò che rende “Dogman” un capolavoro unico nel panorama artistico internazionale. Il regista trasporta Marcello da un angolo all’altro dell’animo umano con magistrale delicatezza, lasciando sospeso lo spettatore tra l’innegabile affetto nutrito per un “ultimo” della società ed un finale tragicamente bestiale, per la vittima strangolata ed il carnefice in cerca di approvazione.

Le ultime scene sorvolano la frenesia di un killer che tenta di sbarazzarsi di un corpo, e la surreale decisione di trascinarlo – quasi come un cagnolino riporta la pallina al padrone – agli amici in cerca di schizofrenica approvazione.

Lo shot finale è il perfetto riassunto di un viaggio incerto e distorto, proprio come lo sono i sentimenti umani, in attesa: Marcello ansima fortemente per lo sforzo, ansima come un cane e guarda all’orizzonte. Intriso della bestialità eclatante delle ultime scene. All’improvviso rallenta, si ferma, si ricompone e chiude la bocca. Forse comprende di aver superato il limite. Guarda lo spettatore in camera, dritto negli occhi, quasi a dire: e tu che avresti fatto?