Samia Yusuf Omar: sconfitta dal mare, ha vinto la gara più importante

 

“Sapete che fine ha fatto Samia Yusuf Omar?”: queste le parole con cui Abdi Bile, medaglia d’oro ai Mondiali di atletica leggera di Roma del 1987, interroga retoricamente il pubblico riunitosi a Mogadiscio per ascoltare i membri del Comitato Olimpico Nazionale Somalo poco tempo dopo la manifestazione sportiva di Londra 2012 che aveva visto il trionfo di Mo Farah nei cinquemila e diecimila metri.

Samia non c’è più. Ha perso la vita inseguendo un sogno, una speranza, non senza avere paura ma riuscendo a sconfiggere il terrore e l’orrore della guerra. Samia è divenuta un simbolo in Somalia: per chi combatte contro la morte, per chi combatte per i propri diritti.

Samia nasce nel 1991 a Mogadiscio, nel pieno di una guerra civile. In una prima fase, i ribelli somali si rivoltano contro il regime di Siad Barre, al potere dal 1969. Successivamente, il conflitto passa nelle mani dei signori della guerra locali e vede fronteggiarsi un numero sempre più elevato di etnie, portate allo scontro da un governo che sentono come nemico. Infine, dal 2008, i gruppi di Al-Shabaab iniziano a ribellarsi alla forma di stato internazionalmente riconosciuta, seminando il terrore all’interno del confine somalo.

Samia è nata durante la guerra, non sa cosa voglia dire vivere senza. Ciò che questa guerra non ha potuto toglierle è stata la voglia di correre e realizzare il suo sogno: partecipare alle Olimpiadi di Londra del 2012. Tuttavia, quelle Olimpiadi, durante le quali fantasticava di allenarsi nella stessa pista di Mo Farah, suo idolo, campione di origini somale, Samia non le vivrà mai.

Beijing Olympics Athletics Womens 200m

La sua storia viene conosciuta a livello mondiale nel 2008: corre nella corsia numero due la gara dei 200 metri della prima batteria alle Olimpiadi di Pechino, contro la super favorita Veronica Campbell-Brown. L’esito della gara è palese allo start: le altre sette atlete sono muscolose, atleticamente pronte; Samia è molto magra, incerta e parte con un netto svantaggio, dato anche dalla assegnazione di una corsia interna. Arriverà al traguardo per ultima, con un tempo di 32.16 e uno stacco di 7 secondi e pochi centesimi dalla prima classificata. Una vita, in questa disciplina.

Samia riceve però qualcosa che Veronica Campbell-Brown né le altre sei atlete conquistano in quella gara: l’affetto incondizionato del pubblico che la incita fino all’ultimo millesimo di secondo. All’epoca ha solo diciassette anni e il desiderio di rivalersi alla successiva occasione possibile: le Olimpiadi di Londra. Per realizzare questo sogno, Samia è consapevole di aver bisogno di un vero allenatore e della possibilità di correre senza burqa, negata dalle milizie di Al Shabaab. Vuole diventare come il suo idolo, Mo Farah; desidera diventare una speranza per chi sta vivendo la sua stessa situazione. Nonostante abbia poco e la vita le abbia tolto molto, donare ciò che le rimane per raggiungere il suo traguardo è più importante di tutto il resto.

Dopo il rientro dalle Olimpiadi di Pechino inizierà quel viaggio “senza approdo”, lungo molti mesi e costato più di 1.500 dollari, che la porterà a perdere la vita nelle acque del Mediterraneo. Sostegno fondamentale per Samia fu una delle sorelle maggiori, trasferitasi a Londra per costruire la propria vita lontano dalla guerra. Da lei, la piccola atleta ebbe un supporto anche economico per soddisfare le infinite richieste dei trafficanti che attraverso l’Etiopia, il Sudan e il deserto del Sahara la condussero, insieme ad un centinaio di sventurati compagni, in Libia.

L’ultima cosa che vide fu proprio il mare, lei che amava la terraferma e la sensazione di libertà sulla pista. Da quel vecchio peschereccio che accoglieva circa 300 persone e li aveva abbandonati con poche risorse in mezzo al nulla, Samia si buttò in acqua vedendo la nave della guardia costiera italiana e pensando che, una volta gettatasi, sarebbero arrivati i soccorsi. Persero la vita lei e altri cinque compagni che speravano in un soccorso in mare. Sono morti a poche miglia dalle coste italiane, quando ormai il peggio l’avevano lasciato alle spalle.

Samia sognava Londra, sognava sua sorella, la sua nipotina e le Olimpiadi. Sognava un paio di scarpe come quelle di Mo Farah, sognava gli applausi del pubblico e quelle sue gambe tanto lunghe e magre che giravano ad un ritmo incessante sulla pista. Sognava di essere la donna più veloce della Somalia. Sognava di dare la libertà alle donne del suo Paese, di essere un’ispirazione per loro. Oggi, indipendentemente da ciò che desiderava, è diventata un esempio per chiunque abbia un sogno.