In fuga dall’Eritrea, dove sviluppo e libertà sono ancora un miraggio

Di Simonetta Viola – L’Eritrea è uno degli Stati più poveri dell’Africa e confina con l’Etiopia, paese con il quale è in conflitto da ben 18 anni. Nel 2000 le due nazioni firmano un accordo di pace che chiude il periodo di forti tensioni che ha caratterizzato il biennio precedente. Tensioni che però non sono sparite nei 18 anni conseguenti: rimaste latenti, hanno dato vita ad un dialogo impossibile tra i due Stati che, con il Trattato di Algeri, si sperava potessero mettere fine alle crudeltà perpetrate nella guerra che le ha viste protagoniste.

La situazione dell’Eritrea oggi è piuttosto critica nonostante i segnali distensivi dell’Etiopia nell’ultimo mese che fanno presagire un reale periodo di pace tra i due stati. Lo scorso 5 giugno, infatti, il premier etiope Abiy Ahmed ha dato la propria disponibilità a rispettare gli accordi di Algeri. Si è impegnato, inoltre, a rispettare la sentenza della Eritrea-Ethiopia Boundary Commission (Eebc), commissione di frontiera dell’ONU, che ha ridato all’Eritrea i territori contesi, tra cui la città commerciale di Badme.

Adesso tocca all’Eritrea seppellire l’ascia di guerra e trarne tutti i vantaggi del caso. La fine delle tensioni potrebbe finalmente sollevare il governo di Asmara dalla più grande minaccia alla sicurezza degli ultimi 20 anni e porterebbe alla cancellazione del servizio di leva obbligatorio a 17 anni che costringe troppi eritrei a battersi per l’Eritrea senza diritto di congedo. Una sorta di spirale discendente dalla quale non si vien fuori: molti di questi giovani soldati non hanno solo la leva obbligatoria, ma sono costretti a lavorare i terreni dei loro comandanti dell’esercito.

Eliminando questo sistema che ha prodotto povertà e non ha permesso allo Stato eritreo di crescere, si potrebbe creare forza lavoro che permetterebbe al governo di Asmara di essere competitivo nel mercato internazionale. La leva obbligatoria non risparmia neanche uomini adulti, di 50 o 60 anni, e li costringe a lavori sulle infrastrutture pubbliche fornendo, così, manodopera a bassissimo costo.

È proprio da questa situazione che scappano gli eritrei approdando nei nostri porti. Secondo i rapporti di Amnesty International, la leva che dovrebbe durare 18 mesi si prolunga per tutta la vita non lasciando la possibilità di esimersi per motivi religiosi, etici o di coscienza: non esiste obiezione di coscienza e non esistono servizi alternativi alla leva obbligatoria.

Human Rights Watch ha denunciato l’Eritrea come uno dei paesi più militarizzati al mondo, con ben 361 tra carceri e centri di detenzione. A questo si aggiungono le denunce di torture perpetrate su prigionieri, oppositori e non. A coronare questa situazione si aggiunge la totale inesistenza della libertà di stampa: dal 2010 non esistono in Eritrea corrispondenti esteri. Secondo un rapporto della Ong Reporters sans frontières l’Eritrea è il paese meno libero al mondo.

I dati dell’UNHCR parlano del 9% della popolazione totale fuggita dall’Eritrea nel 2015: corrisponde a 400 mila uomini che scappano da questa situazione disumana in cerca di un mondo diverso e di possibilità di crescita concrete. Gli Eritrei scappano dalla leva obbligatoria perché l’unica alternativa sarebbe la tortura, in quanto non esistono partiti di opposizione né la possibilità di opporsi alle direttive del governo di Asmara.

Gli Eritrei sanno di dover affrontare un viaggio di oltre 4.000 km attraverso il deserto per approdare in Europa alla ricerca di fortuna o di un futuro migliore. Partono dall’Eritrea Occidentale dove si affidano a gruppi criminali che li portano in Sudan affidandoli a trafficanti nomadi che faranno attraversare loro Egitto o Libia attraversp il deserto. A quel punto salperanno in mare dove li aspetterà una traversata di giorni in mare che li porterà, non sempre, sulle coste italiane.

Questo viaggio della speranza non è gratuito: ha un costo per ogni eritreo di 3000 dollari. Non sempre questa cifra, tuttavia, è abbordabile, e comporta sevizie, torture e detenzione da parte delle frange criminali che organizzano la tratta in accordo con le forze dell’ordine locali corrotte. Una volta approdati sulle coste del Mediterraneo, tuttavia, questi uomini non sono salvi e non possono definirsi liberi: un rapporto dello Human Rights Watch riporta le torture che i trafficanti egiziani perpetrano nei confronti di questi uomini in cerca di fortuna: scariche elettriche, pestaggi con spranghe o bastoni, ustioni, sevizie fino ad arrivare a casi di morte per impiccagione.

Un profugo eritreo deve, quindi, superare le sevizie della polizia locale, dei trafficanti egiziani, libici, sudanesi, attraversare il deserto, il mediterraneo in un viaggio della speranza lungo 4000 km. Tutto ciò non li scoraggia dal partire e la motivazione è ben chiara: la situazione interna dell’Eritrea è assolutamente insostenibile. L’Eritrea è uno dei paesi più poveri al mondo, con un PIL medio pro capite di 800 dollari l’anno e 70 dollari al mese.

Questa è la situazione di molti uomini che vediamo giornalmente sbarcare sulle nostre coste e che proviamo a rimandare indietro. Questa è la storia di quegli occhi che ci fissano imploranti e carichi di una storia troppo pesante per qualunque essere umano che si rispetti.