Stupro e alcool: perché la sentenza della Cassazione non va contro la vittima

Di Silvia Scalisi – Qualche giorno fa si è avuta notizia di una sentenza della Cassazione in merito ad un caso di violenza sessuale di gruppo, un tema sempre molto delicato, e affrontato spesso dalla Corte, ma non per questo immune da giudizi e perplessità.

E infatti, questa sentenza ha destato scalpore più di altre, alla luce della risonanza (esagerata e, quasi sicuramente, ingiustificata), che le è stata data dai media.

Ciò che ha infiammato l’opinione pubblica e riempito le pagine dei giornali è stata l’eliminazione da parte della Corte dell’aggravante di cui all’art. 609 ter del codice penale, che prevede un aumento di pena nel caso di violenza sessuale commessa «con l’uso di armi o di sostanze alcooliche, narcotiche o stupefacenti, o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa» (art. 609 ter, comma 1, n. 2, c. p.), rinviando il giudizio alla Corte d’Appello che dovrà procedere al ricalcolo della pena al ribasso.

Ma andiamo con ordine. Il caso in questione riguarda una ragazza che aveva cenato con due uomini, aveva bevuto, ubriacandosi, ed era stata poi portata in camera da letto dai due che hanno abusato di lei.

In primo grado i due uomini vengono assolti da un giudice di Brescia, perché la ragazza non viene riconosciuta attendibile. In appello, la corte di Torino dà un’interpretazione diversa del referto del pronto soccorso, rilevando i segni di resistenza sul corpo della ragazza, e condanna i due uomini a tre anni applicando anche l’aggravante di cui sopra. La difesa dei due imputati presenta ricorso, sostenendo che non c’era stata violenza, né tanto meno riduzione a uno stato di inferiorità, alla luce del fatto che la ragazza aveva bevuto volontariamente e senza costrizione alcuna.

La Cassazione, nella sentenza incriminata, conferma la violenza commessa dai due imputati, ma rinvia ai giudici di secondo grado sul punto dell’aggravante, escludendone l’applicazione. E qui, nasce il fraintendimento.

L’esclusione dell’aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche previsto dall’art. 609 ter c.p. viene letto in modo sfavorevole per la vittima, quasi a colpevolizzarla, spostando l’attenzione su di lei piuttosto che sui due stupratori; la sentenza viene definita «sconcertante», una regressione di almeno un decennio, «un passo indietro nella cultura del rispetto e nella punizione di un gesto ignobile e gravissimo», come ha dichiarato la deputata Annagrazia Calabria. Arrivando poi fino al travisamento più estremo delle parole della Corte, come se avesse sotteso uno spietato: “se l’è cercata, perché si è ubriacata da sola”, quasi a minimizzare l’accaduto.

In verità a leggere bene la sentenza (e non tutti, a quanto pare, si sono presi la briga di farlo), ci si accorge di come la Corte abbia semplicemente applicato la legge, né più, né meno. E, dopo aver letto la decisione, e averla confrontata con le norme, ci rendiamo conto di quanto la pronuncia potesse essere prevedibile, o quantomeno, non così sorprendente (in senso negativo), come è stata fatta apparire.

Partiamo dal’art. 609 bis c.p., che descrive la condotta del reato di violenza sessuale: «chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni». Continua la norma, al comma 2: «Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto».

Stando, invece, alla formulazione dell’aggravante di cui all’art. 609 ter, comma 1, n.2 c. p., lo stato di alterazione psichica dovrebbe essere causato dagli stupratori stessi, proprio per perpetrare la violenza sulla vittima.

Ora, se è (più) facile stabilire ciò nel caso di sostanze stupefacenti (pensiamo al soggetto che sciolga nella bevanda della vittima una droga per stordirla, quando questa non se ne accorga), più difficile risulta accertarlo nel caso di sostanze alcoliche: come si può stabilire l’intento del soggetto di far ubriacare la vittima per abusare di lei? Può, per esempio, considerarsi tale un comportamento che consiste nel versare continuamente da bere nel bicchiere della vittima? Può la vittima bere senza effettivamente rendersene conto? Questi interrogativi rendono l’applicazione della norma poco chiara, quantomeno per la parte dedicata alle sostanze alcoliche.

Allora, più che la decisione della Corte, potrebbe criticarsi il dettato normativo, forse poco cristallino e non adatto alla realtà dei contesti sociali odierni in cui operano gli abusi.

Ad ogni modo, la Corte non ha affatto negato la violenza compiuta dagli imputati, ma ha soltanto escluso l’aggravante in virtù della volontarietà del comportamento della vittima, a fronte di una norma che per essere applicata necessita di un’alterazione psicofisica cagionata dagli stessi carnefici.

In un’ottica di importanza sempre maggiore a quello che è il consenso esplicito della vittima, si sottolinea come nel caso di specie esso fosse mancante, ma in ogni caso, impossibile da stabilire, poiché la ragazza stessa non era in grado di darlo consapevolmente.

hand-1832921_960_720Paradossalmente, quindi, e ragionando per assurdo, anche se la vittima avesse prestato il proprio consenso al rapporto, questo non avrebbe potuto comunque considerarsi valido, in quanto la giovane era incapace di auto-determinarsi, per via dell’eccessivo consumo di alcool, che la rendeva più vulnerabile e in uno stato (momentaneo) di alterazione psichica.

Leggendo la sentenza, quindi, si evince come la pronuncia non abbia, in realtà, nulla di eclatante o sconcertante, ma semplicemente vada ad applicare le norme (forse inadatte, ma comunque, ad oggi, in vigore). Perché spesso, per evitare polemiche futili, basterebbe soltanto prestare più attenzione e informarsi sull’accaduto, integralmente e non parzialmente.


 

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