Elezioni in Turchia: la partita a scacchi di Erdogan

Di Adriana Brusca – Trascorsi quasi due anni dal tentato golpe del luglio 2016, il retaggio di questo evento cruciale della storia democratica turca continua a ripercuotersi tanto sul piano giuridico, quanto su quello politico: con riguardo al primo aspetto, permane lo stato di emergenza – proclamato ai sensi dell’art. 15 della CEDU – , sulla base del quale è consentito restringere diritti e libertà fondamentali, in presenza di un pericolo che minacci l’integrità della Nazione; sul piano politico, la Turchia continua ad affrontare una fase di forte instabilità, legata principalmente alla transizione tra due modelli ordinamentali a tratti antagonisti: tale mutamento, che si riconnette causalmente all’approvazione della riforma costituzionale, avvenuta tramite consultazione referendaria lo scorso 16 aprile, è accompagnato da una parallela polarizzazione di consensi in capo al Presidente Erdogan, cui specularmente corrisponde una restrizione degli spazi e degli strumenti riservati all’opposizione  politica.

L’attenzione mediatica è concentrata sulle prossime elezioni, durante le quali i cittadini turchi saranno chiamati a scegliere il Presidente e il Parlamento, sulla base di un meccanismo elettorale a suffragio universale diretto, che, sebbene costituisca lo strumento più idoneo a garantire l’attuazione del principio della democrazia rappresentativa, si insedia, nel caso di specie, all’interno di un clima di tensioni che rende legittimo il dubbio circa il libero e imparziale svolgimento di tale attività elettorale, sia perché gli strumenti di cui dispone l’opposizione, se comparati con quelli che fanno capo al partito di maggioranza, sono fortemente limitati, sia perché sotto lo stato di emergenza è stata notevolmente ridotta la libertà di espressione ed è stato esercitato un non trascurabile controllo sui media.

Le elezioni, inizialmente previste per il 3 novembre 2019, sono state anticipate al 24 giugno 2018, a seguito del risultato referendario citato in precedenza, che ha fatto emergere la necessità di ridisegnare la struttura politica turca, per garantire stabilità e sicurezza alla Nazione.

Oggetto del referendum, infatti, è stata la modifica della forma di governo, al fine di sancire il passaggio da una democrazia parlamentare ad una democrazia presidenziale – sulla scia del modello francese – che, tuttavia, in base all’adattamento posto in essere in relazione al sistema turco, rischia di tradursi in una modifica della forma di stato, consentendo la costituzione di un sistema che non dista troppo da un’autocrazia a carattere mediorientale, in linea con chi, all’opposizione, ha ritenuto di poter definire il Presidente Erdogan un “Sultano”.

Il 51,3% dei voti che ha condotto all’approvazione della riforma, seppur abbia riflesso le incertezze di un Paese spaccato a metà, è stato sufficiente a garantire una ristrutturazione del sistema democratico turco, che giungerà al suo completamento nel 2019, con l’entrata in vigore del nuovo testo costituzionale.

Le motivazioni ufficiali che hanno condotto ad anticipare la data delle elezioni, come già accennato in precedenza, si legano ad una scelta politica volta ad attuare, nel più breve tempo possibile, la volontà popolare emersa dall’esito della consultazione referendaria, nonché a ridisegnare una strategia d’intervento che sia in grado di condurre ad azioni concrete sul versante esterno, con specifico riguardo alla Siria e all’Iraq, due vicini in costante conflitto interno, i cui effetti bellici si ripercuotono anche sul vicino territorio di Ataturk.

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Meral Aksener

I rivali dell’opposizione sostengono, al contrario, che la scelta di anticipare le elezioni sia dovuta al crescente consenso in capo a Meral Aksener, fondatrice di IYI Parti e prima donna candidata alla Presidenza nazionale, che, dopo aver fondato il suo partito nello scorso settembre, sta riportando alla luce l’eredità di una destra liberale turca, che era stata accantonata a seguito della spaccatura che sembrava far convergere i consensi esclusivamente su due poli: da un lato, l’AKP, il cui leader è, per l’appunto, Erdogan; dall’altro il CHP, partito laico e repubblicano, presieduto da Kemal Kılıçdaroğlu.

Ancor più complessa è la questione relativa alla rappresentanza del partito curdo, l’HDP, i cui principali leader e attivisti sono stati posti in stato di detenzione perché considerati, per l’appunto, una minaccia all’integrità della Nazione. Raggiungere la soglia del 10% di consensi per accedere al Parlamento, come previsto dalla legge, nell’abito di questo clima politico, costituirà una chiara difficoltà, soprattutto perché i curdi, oltre a rappresentare una minoranza politica, costituiscono altresì una minoranza etnica, la cui eguaglianza dinanzi alla legge è stata più volte violata sul piano sostanziale, sebbene sia sancita, sul piano formale, dal sistema giuridico turco.

Qualora le elezioni dovessero riconfermare la figura di Erdogan quale Presidente – scenario che, ad oggi, sembra essere altamente probabile –, ci troveremmo di fronte al più lungo mandato esercitato nella storia della repubblica turca: Erdogan, infatti, entrato in politica ufficialmente nel 2002 e divenuto, dapprima Primo Ministro e, successivamente, nel 2014, Presidente della Repubblica, potrebbe puntare al mantenimento di tale carica per molto tempo. Sebbene, per l’esercizio di tale funzione, sia previsto il limite di due mandati, l’entrata in vigore della nuova riforma, consente ad Erdogan di azzerare il primo mandato, con conseguente possibilità di restare legittimamente al potere sino a 2029.

Tra le competenze attribuite al nuovo Presidente della Repubblica, sulla base della riforma approvata lo scorso aprile, vi sono alcuni punti che destano particolare preoccupazione: sulla via del processo di accentramento di sovranità e nel pieno rispetto del principio di legalità, il nuovo Presidente, tradendo l’eredità democratica acquisita grazie alla tripartizione di Montesquieu, accentrerà le competenze sull’esecutivo sino ad ora attribuite al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri, e potrà proporre e rifiutare la promulgazione di progetti di legge, senza alcun limes quantistico che delimiti il potere di rinvio, e senza obbligo di motivare un eventuale rifiuto.

All’ingerenza indiretta sul ramo legislativo ed esecutivo, si affianca il potere di poter formulare direttamente decreti legislativi su materie di ordinaria competenza dell’esecutivo, con una riserva prevista per legge in merito a diritti civili e politici e libertà fondamentali; materie che, tuttavia, come già accennato in precedenza, sono comunque attualmente oggetto di disposizione del Presidente, in virtù dell’ossimorica acquiescenza dello stato di emergenza.

Una altro elemento che costituisce un nodo problematico è rappresentato dalla riduzione degli strumenti di controllo del Parlamento sull’operato del Governo e, dunque, dal restringimento dello spazio di partecipazione democratica all’iter legislativo e alle scelte in merito alla determinazione dell’orientamento politico del Paese. Parallelamente, la riforma prevede delle modifiche volte a snaturare l’istituto della fiducia, la cui mozione non potrà più essere posta nei confronti del Presidente e del Governo.

Anche il potere giudiziario non risulta esente da una chiara ingerenza; il Presidente, infatti, potrà nominare sei dei dodici componenti dell’Alto Consiglio dei Magistrati e Pubblici Ministeri, e potrà ordinarne la rimozione, in pieno contrasto con l’ormai consolidato principio di inamovibilità della magistratura.

Sul versante amministrativo, assume rilevanza il potere del Presidente di poter avviare e chiudere legittimamente qualsiasi ente pubblico; potere, questo, accompagnato da una parallela discrezionalità circa la nomina di vertici posti nel settore dell’istruzione, della sanità e delle forze armate.

Sul piano simbolico, è importante rilevare che, con l’attuazione della riforma, è venuto meno uno degli elementi essenziali dell’ordinamento democratico moderno, ossia il principio secondo il quale il Presidente della Repubblica debba essere un Organo super partes;  questo principio, lungi dall’imporre l’assenza di un’identità politica al Capo dello Stato, richiede che, nell’esercizio del  suo mandato politico, egli non permetta all’identità partitica di condizionare lo svolgimento della sua funzione. L’applicazione concreta di tale principio, attualmente garantita mediante l’obbligo di giurare totale imparzialità al momento del conferimento dell’incarico, rischia oggi di incrinarsi, essendo prevista, dal nuovo testo, una disposizione che consente il mantenimento del legame vigente con il partito di appartenenza. Tale aspetto non può essere sottovalutato, soprattutto nell’ottica di una possibile prosecuzione del processo di islamizzazione dello Stato, portato avanti proprio dall’AKP, il partito del Presidente Erdogan.

Prescindendo dall’esito del prossimo appuntamento elettorale, i cui risultati, come mostrato dalle più recenti e rilevanti elezioni presidenziali, non possono mai essere determinati anteriormente con certezza, ciò che sembra opportuno rilevare è che il sistema statale ridisegnato dalla riforma costituzionale, la cui entrata in vigore è prevista per il vicino 2019, mal si concilia con i principi della democrazia e dello stato di diritto, che costituiscono le fondamenta dell’intera costruzione del progetto europeo, nonché gli elementi essenziali sul quale è strutturato il modello dello Stato costituzionale moderno. Alla luce di tale impostazione, nell’ottica di una futura adesione all’Unione Europea, la Turchia sembra allontanarsi sempre più dal binario valoriale che le Istituzioni e gli Stati membri hanno tentato di promuovere all’esterno, mediante la politica di enlargement, e dal rispetto dei criteri politici richiesti ai fini dell’adesione, al punto tale da riconsiderare nel suo complesso la procedura di ammissione, tanto auspicata dal Presidente Erdogan negli scorsi anni ma, oggi, sempre più oggetto di diatriba per chi ancora crede nell’esistenza di un progetto politico europeo che abbia quale prioritario parametro identificativo il panorama assiologico comunitario.


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