Lula livre

Di Francesco Puleo – Esattamente un mese fa, l’ex presidente del Brasile Luis Inacio Lula da Silva si è consegnato alla polizia in seguito alla condanna a 12 anni per corruzione nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria su presunte tangenti che coinvolge una fitta rete di imprese pubbliche e private e numerosi esponenti di spicco della politica brasiliana. Per ampiezza, metodi e clamore mediatico, l’inchiesta Lava Jato (“autolavaggio”) è stata paragonata a Mani Pulite: lo stesso Sergio Moro, giudice e regista dell’operazione, dice di essersi ispirato al Pool di magistrati che nel 1992 ha svelato all’opinione pubblica italiana il sistema di finanziamento illecito dei partiti, preparando il terreno alla loro dissoluzione.

Tuttavia, nonostante l’incandidabilità sancita dalla sentenza, Lula non è stato travolto da un fitto lancio di monetine ma accolto da una vera e propria marea di sostenitori che lo vorrebbero nuovamente alla guida del paese. Sono pazzi questi brasiliani? Non esattamente.

Lula nasce nel 1945 da una famiglia povera e analfabeta. A 12 anni inizia a lavorare come lustrascarpe, a 14 come operaio in una fabbrica di rame. Cinque anni dopo perde un dito in un incidente sul lavoro; da allora si avvicina al sindacato e in poco meno di quindici anni diventa presidente del sindacato dei metalmeccanici di São Bernardo do Campo e Diadema. Nel 1980, nel pieno della dittatura militare, fonda il Partido dos Trabalhadores (PT) insieme ad altri dirigenti sindacali, intellettuali ed esponenti del mondo accademico. Da lì inizia una brillante carriera politica coronata con l’elezione a presidente del Brasile nel 2002.

Nel giro di due mandati, Lula contribuisce alla trasformazione di un paese impoverito in una delle più grandi potenze economiche del pianeta attraverso programmi di riforma decisamente ambiziosi: su tutti, Fome zero (“Fame zero”) e Bolsa Familia, che hanno garantito sostentamento e istruzione gratuiti a milioni di brasiliani. Tutto questo senza venire meno agli obblighi contratti con il Fondo Monetario Internazionale in seguito agli accordi stipulati dal governo precedente.

Un percorso ovviamente segnato da contraddizioni, sia con la parte più povera del suo elettorato che tutt’ora vive nelle favelas sia con l’ala più radicale del suo partito, che lo accusa di essere sceso a patti con quel sistema di potere che è tutt’ora la causa delle profonde disuguaglianze sociali del paese.

Dopo l’elezione del suo successore Dilma Rousseff per due mandati consecutivi, il paese è entrato in una grave crisi economica, dovuta in gran parte al crollo del prezzo delle materie prime. A ciò è seguito lo scandalo giudiziario – di cui sopra – la condanna per impeachment di Rousseff nel 2016 e l’elezione a capo del governo di Michel Temer, massimo rappresentante dell’élite politica brasiliana più reazionaria, che sin dall’insediamento ha disposto la militarizzazione del paese e lo smantellamento delle riforme progressiste degli ultimi 14 anni.

L’aspetto curioso è che 8 ministri su 29 del governo Temer sono indagati nello stesso processo che ha travolto Lula: così, mentre Lula è stato condannato sulla base di dichiarazioni non ancora accertate di un “pentito” (che, in cambio delle sue “confessioni”, ha ottenuto una riduzione della pena da 23 a 3 anni), il Ministero dell’agricoltura è ad oggi in mano a Blairo Maggi, magnate di una multinazionale agricola, anche lui indagato nell’operazione Lava Jato, intenzionato a “modificare” la legge sulla schiavitù e a “liberalizzare” le regole che tutelano la Foresta Amazzonica dallo sfruttamento più selvaggio. Viene il sospetto che la magistratura brasiliana non sia in buona fede e che la lotta alla corruzione sia solo una scusa per mascherare l’ennesima svolta autoritaria.


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