La rivoluzione egiziana, tra caratteri nuovi e poteri oppressivi

Di Davide Renda – Per il dossier Privamere arabe.

La presidenza Mubarak

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L’ex presidente Hosni Mubarak

Hosni Mubarak, già vice presidente dell’Egitto dal 1975 al 1981, diventò presidente dopo l’assassinio di Sadat nel 1981. A capo del Partito Nazionale Democratico, mantenne lo stato d’emergenza durante tutta la sua presidenza, durata ben trent’anni fino alla rivoluzione del 2011. Era tendenzialmente apprezzato dalle potenze occidentali ma soprattutto dagli Stati Uniti, che più volte forniranno supporti economici e strategici all’Egitto; di notevole importanza e ben visto dall’occidente è il suo ruolo nei rapporti di pace con Israele per stabilizzare la regione mediorientale. Sotto Mubarak la violenza dello Stato e dei suoi diversi apparati è cresciuta a dismisura diffondendo il terrore, l’insicurezza e la diffidenza. L’importanza e l’influenza dei servizi segreti e degli apparati repressivi ha trovato una giustificazione nella guerra al terrorismo che ha fruttato a Mubarak la patente di “moderato”, assegnato dalle potenze democratiche. Ciò ha avuto ancora più importanza dopo gli attentati dell’11 settembre alle Torri Gemelle di New York. 

La sua presidenza, che si espliciterà in un regime autoritario, è caratterizzata da una diffusissima corruzione, elemento che insieme alla povertà, l’aumento delle disuguaglianze sociali, la disoccupazione giovanile, alimenteranno sempre di più il malcontento popolare. Tra il 2004 e il 2005 comincia a strutturarsi il movimento Kifaya, che chiede esplicitamente la caduta di Mubarak e si oppone alla prospettiva molto concreta che gli succeda il figlio Gamal, già attivo nei preparativi alla sua probabile futura presidenza. Il divieto di manifestazioni pubbliche salta grazie alle manifestazioni del movimento Kifaya e di altri settori della società civile. Nel 2005 alle elezioni presidenziali e legislative il regime di Mubarak si vede insidiato da nuove forze in parlamento, e gli spazi elettorali sociali e politici che erano stati aperti verranno chiusi e la repressione diventa più acuta. Dal 2006 in poi studenti, abitanti dei quartieri danno vita ad iniziative variegate di protesta e contestazione del regime.

Durante il 2008 il paese viene scosso dagli scioperi di numerose fabbriche, derivati dall’insuccesso delle politiche statali per contenere l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (in particolare del grano). Nel mese di giugno 2010, Khaled Said, un giovane di Alessandria, filma e diffonde via internet un video che mostra degli agenti di polizia che, dopo una retata antidroga, si spartiscono la refurtiva sottratta ai trafficanti. Durante una perquisizione, verrà sequestrato e torturato fino alla morte. I suoi genitori decidono di non stare in silenzio ma di diffondere le immagini del suo corpo torturato che faranno il giro dell’Egitto in pochi giorni provocando lo sdegno e la condanna di ampi settori della società. Le iniziative del gruppo Facebook “Siamo tutti Khaled Said” che ha raccolto decine di migliaia di iscrizioni, erano mirate a denunciare uno stato di polizia dove il terrore e la corruzione regnano sovrane. Tra di esse, l’iniziativa di boicottare le elezioni del novembre del 2010.

I fermenti continuarono poco dopo le proteste in Tunisia del gennaio del 2011. Le tesi contro un simile avvenimento in Egitto erano comunque numerose ma incaute; a differenza di Ben Ali, Mubarak non era stato abbandonato dall’esercito. Inoltre, il pericolo di avvento al potere dei Fratelli Musulmani provocava nell’Egitto laico ma anche negli aspiranti alla rivoluzione molti pensieri contrastanti sulla necessità di far cadere il regime di Mubarak.

La rivoluzione del 2011

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La comunità di piazza Tahrir

La scintilla arrivò in modo quasi analogo alle vicende tunisine. Il 18 gennaio un uomo si diede fuoco davanti al parlamento egiziano e altre cinque persone tentarono di fare lo stesso. Le mobilitazioni per ottenere la caduta del regime di Mubarak al Cairo programmate per il 25 gennaio andarono diversamente dalle previsioni, che si aspettavano qualche centinaia di presenze. Decine di migliaia di persone cominciarono a confluire a piazza Tahrir, e un simile andamento si avrà a Suez e Alessandria. La piazza si trova in una zona del Cairo associata al potere del regime, di fronte il palazzo del ministero dell’interno. È il primo di diciotto giorni in cui la piazza verrà trasformata in una comunità in cui individui di ogni etnia, religione o nazionalità sono accolti in nome della protesta contro il regime; la piazza si organizza in momenti di protesta, di preghiera, di intrattenimento e continua ad accogliere migliaia di persone proveniente da ogni parte del paese.

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Cristiani formano una catena umana per proteggere i musulmani durante la loro preghiera

Nel “venerdì della collera” si affermarono i principi della tentata rivoluzione: giustizia sociale, libertà, dignità. Il regime doveva cadere come incarnazione del terrore e dell’insicurezza sul popolo egiziano, secondo i rivoluzionari presenti in piazza. Si chiese la fine dello stato di emergenza, la trasformazione degli apparati istituzionali e l’emissione di leggi a favore della giustizia sociale e delle libertà civili. Il 29 gennaio la presenza militare aumentò esponenzialmente, e si tentò di istituire un coprifuoco che fu largamente ignorato dai rivoluzionari concentrati in piazza Tahrir. Nei diciotto giorni di protesta i rivoluzionari avevano ricevuto numerose pressioni da parte dei militari e dai sostenitori di Mubarak ad abbandonare la piazza, e questa tensione verrà manifestata in scontri e proteste durissime. Mubarak tentò di smorzare il malcontento facendo dimettere il suo gabinetto, o propagandando che, piuttosto che di una rivoluzione, si trattava meramente di un complotto occidentale, ma i suoi tentativi non avranno successo e la piazza rimarrà decisa ad ottenere la caduta del suo regime.

La vittoria, seppur parziale, arrivò l’11 febbraio con le dimissioni del presidente Mubarak; il potere fu trasferito nelle mani del Consiglio superiore delle forze armate, comandato da Tantawi. La piazza viene sgomberata, e i vari comitati rivoluzionari emettono comunicati in cui allertano il Consiglio militare che rimarranno vigili sul rispetto della volontà popolare manifestata nei giorni di Piazza Tahrir. È a questo punto che i comitati rivoluzionari e gli attivisti mostrano una ingenuità che gli costerà caso; l’abbandono della piazza con la promessa di una transizione democratica sarà un fattore di debolezza per le aspirazioni rivoluzionarie.

All’interno dei movimenti e comitati mancava inoltre una soluzione programmatica ma anche un lavoro sul fronte politico che potesse fare da argine al pericolo di una transizione per niente democratica. Uno dei primi e ardui compiti dell’esercito è stabilizzare la situazione e l’ordine pubblico, ma altre sfide arrivavano sul fronte finanziario in quanto le banche cominciavano a riaprire (molte erano state danneggiate) e il pericolo di fuga di capitali era reale. Oltre l’esercito, gli attivisti politici dei vari movimenti rivoluzionari o sindacali e i Fratelli Musulmani dominavano la scena politica, e operavano su due fronti assolutamente inconciliabili.

L’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani

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Mohamed Morsi

I Fratelli Musulmani erano accusati dai rivoluzionari di aver tradito la rivoluzione, e di averla strumentalizzata per il loro consenso politico. Una valutazione che in parte si rivelerà vera, considerato che alle elezioni a cavallo tra il 2011 e il 2012, l’Alleanza Democratica la cui maggior forza è rappresentata dai Fratelli Musulmani vinse le elezioni, decretando la presidenza di Mohamed Morsi.

Le elezioni sono state proclamate come le prime libere elezioni dopo quelle del 1952. Lo stato di Mohamed Morsi doveva fare riferimento direttamente alle leggi della Sharia, anche se l’Egitto non doveva diventare sostanzialmente uno stato teocratico. Morsi si è attribuito ampi potere nel campo del potere giudiziario, identificandosi come il protettore della rivoluzione e dei lavori della nuova Assemblea Costituente; su questi lavori si crearono numerosissime spaccature, in quanto erano evidenti i timori di una legge coranica come ispiratrice principale dei nuovi valori costituzionali.

L’Egitto era affondato in una crisi economica fortissima a cui nessuno riusciva a dare una soluzione, soprattutto il presidente Morsi. Una scelta che gli costerà caro sarà il licenziamento del ministro della difesa Tantawi a favore del sempre più potente Abd al-Fattah al-Sisi. La crisi economica perdurante e il chiaro annuncio di una costituzione composta da norme ispirate alla Sharia scatenò una reazione fortissima delle piazze egiziane. Molte sedi dei Fratelli Musulmani furono bruciate, e la magistratura egiziana protestava contro quello che chiamava un “golpe bianco”. Le proteste crebbero fino a portare milioni di egiziani sulle strade il 30 giugno del 2013, per chiedere le dimissioni di Morsi ed elezioni anticipate. Morsi rifiutò di farsi da parte e anche di rispondere all’ultimatum di 48 ore proveniente dall’esercito in cui doveva prendere delle decisioni in merito alla crisi economica egiziana. Il risultato fu la sua destituzione da parte delle forze armate, in accordo con il leader dell’opposizione El Baradei. Morsi fu destituito il 3 luglio 2013 e arrestato con accusa di istigazione alla violenza e spionaggio. Il presidente ad interim nominato fu Adli Mansur, già presidente della Corte Costituzionale.

L’era di al-Sisi

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Al-Sisi

Al-Sisi annunciò in televisione che il Presidente Morsi aveva «fallito nel venire incontro alle richieste del popolo egiziano» e la Costituzione fu sospesa. Diventò presidente della Repubblica Araba d’Egitto nel maggio del 2014, con una maggioranza del 96,91 % dei votanti, in un clima di terrore dove i principali oppositori politici furono imprigionati. Alcuni osservatori considerarono il voto come non genuino.

Nell’agosto del 2014, l’Egitto di al-Sisi cercò di svolgere un ruolo di mediazione tra Hamas e Israele per il conflitto esploso a Gaza; inoltre è intervenuto nella seconda guerra civile in Libia e aderito all’intervento militare in Yemen al fianco dell’Arabia Saudita. Sul fronte interno, l’Egitto cadrà nell’incubo di un regime militare che molti, tra cui testate internazionali come il Guardian, giudicheranno come ancora più duro e repressivo di quello di Mubarak. Dal massacro alla moschea di Rabi’a al-‘Adawiya in cui perirono circa mille sostenitori del presidente Morsi, fino ai sistematici arresti di studenti, attivisti per i diritti umani e sostenitori dei partiti di opposizione; era nata una nuova era di terrore per gli egiziani. Anche un tweet o una condivisione su Facebook può mettere in pericolo la vita di un egiziano, o comunque esporlo a sequestri e torture.

Dal colpo di stato del 2013, si contano 3.000 condanne a morte, 16.000 feriti, 17.000 arresti oltre a 1.550 casi di tortura per il solo 2015. In questo clima di terrore e strapotere dei militari, dei servizi di polizia e dei servizi segreti, si innesta la triste vicenda del ricercatore italiano Giulio Regeni, che ha riportato nel dibattito internazionale la questione di un regime oppressivo e repressivo. Saranno tenute altre elezioni presidenziali nel marzo del 2018, in un clima di terrore paragonabile alle elezioni di quattro anni prima, in cui al-Sisi verrà riconfermato presidente egiziano per un mandato di altri quattro anni.

La rivoluzione egiziana ha assunto dei caratteri nuovi espressi principalmente nei 18 giorni di piazza Tahrir e nel coinvolgimento di ampi settori della società civile, che con forza si sono uniti per ottenere la fine del regime di Mubarak e dello stato di emergenza. L’attuale regime di al-Sisi ha riportato l’Egitto nel terrore e la rivoluzione sembra fallita nei suoi intenti. Le sue debolezze sono state i vuoti programmatici e l’incapacità di proporsi come alternativa politica negli apparati istituzionali nel paese, oltre ad aver creduto nelle prime fasi della destituzione di Mubarak che i militari avrebbero garantito una transizione democratica. Il suo punto di forza è stata aver dimostrato che si possono mettere da parte le divisioni per un fine comune, e lo dimostrano le manifestazioni nelle piazze e nelle strade che hanno raccolto milioni di persone.


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