La prigionia e il «compromesso storico»: il sequestro dell’On. Aldo Moro

Era il 1978: fu un anno di particolare tensione dovuto soprattutto al sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, l’On. Aldo Moro.


Ci fu un periodo, intercorrente tra gli anni Settanta ed Ottanta, in cui in Italia era prassi, quasi una consuetudine, leggere titoli di giornali relativi a sequestri di persona. I rapimenti, operati da associazioni mafiose o gruppi terroristici, potevano riguardare gente comune, ricchi ereditieri, o ancora esponenti del mondo politico. Questo periodo ha interessato circa dieci anni del panorama italiano, ed è conosciuto con l’appellativo “gli anni di piombo”.

Le fazioni politiche tra loro contrapposte erano in costante conflitto, le diatribe interessavano anche il governo di quegli anni, il quale non poche volte si mostrò impreparato nell’intavolare un dialogo tra le diverse realtà presenti e nel dare delle risposte concrete ai diversi fenomeni relativi alla sottrazione della libertà personale di coloro i quali impropriamente venivano sequestrati.

La legislazione antecedente il caso Moro riguardo al “sequestro”

In Italia i sequestri di persona – soprattutto a scopo di terrorismo e di estorsione – iniziarono a divenire un fenomeno in costante ascesa a partire dai primi anni Settanta. All’epoca il nostro ordinamento non prevedeva un’adeguata legislazione in merito, capace di scoraggiare simili eventi.

Tali delitti erano disciplinati da un’unica disposizione, ovvero dall’art. 630, c.p. il quale, nella sua versione originaria, prevedeva semplicemente la pena della reclusione fino ad un massimo di quindici anni ed il pagamento di una multa qualora il rapimento non avesse sortito esito positivo, ed una pena alla reclusione fino ad un massimo di diciotto anni qualora, diversamente, il sequestro avesse permesso il conseguimento di un ingiusto profitto ai sequestratori.

È palese l’inadeguatezza del dettato normativo, soprattutto in vista della recidiva di tale fenomeno avente molto spesso connotazioni non semplicemente estorsive, ma al contrario eversive dell’ordine democratico del nostro Paese. Motivo per cui un importante momento di svolta si ebbe con l’entrata in vigore della l. 14 ottobre 1974, n. 497, che operando da un duplice punto di vista previde, da un lato l’inasprimento delle pene da infliggere al soggetto agente, dall’altro l’introduzione di una circostanza attenuante di tipo speciale relativa al caso in cui il soggetto attivo del reato si fosse adoperato per permettere la liberazione del soggetto sequestrato senza beneficiare del pagamento di alcuna somma di denaro.

Tale legge fu una prima risposta del legislatore dell’epoca, il quale, suo malgrado, si trovò costretto a trovare delle soluzioni concrete alle richieste provenienti dal contesto sociale, impaurito da tali eventi, ma soprattutto fu costretto ad adeguare in maniera più composita la legislazione ivi presente al periodo che si stava vivendo.

Di maggiore rilievo furono, poi, le modifiche apportate dall’art. 2 d.l. 21 marzo 1978 n. 59 (norme penali e processuali per la prevenzione e la repressione di gravi reati), convertito in l. 18 maggio 1978 n. 191, che ha completamente riformulato l’ipotesi di sequestro di cui si sta discutendo, ciò perché quello fu un anno di particolare tensione dovuto soprattutto al sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, l’On. Aldo Moro.

L’originario decreto legge prevedeva, all’interno di un’unica fattispecie, il sequestro di persona a scopo di estorsione, di terrorismo o di eversione. È stata poi la legge di conversione (l. 18 maggio 1978 n. 191) a distinguere in due diverse ipotesi il sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.), dal sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione (art. 289 bis c.p.) di stampo politico.

Il sequestro dell’On. Aldo Moro, è bene precisare, non avvenne per motivi esclusivamente terroristici, ma al contrario estorsivi e ciò perché inizialmente la richiesta avanzata dai sequestratori fu la liberazione di alcuni esponenti delle Brigate Rosse precedentemente arrestati. Il fine eversivo inevitabilmente sopraggiunse in un secondo momento.

Il rapimento dell’On. Aldo Moro e il tragico epilogo

Il rapimento dell’onorevole avvenne in pochi minuti a Roma in via Mario Fani, il 16 marzo 1978, nel giorno in cui si sarebbe dovuto svolgere in Parlamento il primo dibattito sulla fiducia al nuovo Governo guidato da Giulio Andreotti (cd. Andreotti quattro). I brigatisti durante i cinquantacinque giorni di prigionia, sottoposero Aldo Moro al cd. Tribunale del popolo istituito dalle stesse Brigate Rosse.

Il mondo politico si divise tra coloro che ritenevano fosse necessario infliggere una punizione esemplare e, quindi, ripristinare la pena di morte con cui giustiziare gli esponenti del gruppo armato, senza assecondare le richieste dagli stessi avanzate, e coloro che, diversamente, abbracciando una linea più moderata, ritenevano fosse possibile avallare le proposte poste in essere dai sequestratori, quindi, operare uno scambio tra i detenuti e l’On. Moro, così da garantire a quest’ultimo la liberazione.

Prevalse la prima posizione e non si optò per alcuno scambio. La condanna a morte del presidente della DC fu chiara fin da subito, e vane furono le richieste di rilascio perpetuate anche da Papa Paolo VI con cui chiese a più riprese un ripensamento da parte dei brigatisti.

Il quadro storico delineato fu saturo di momenti tanto difficili quanto di forte tensione. Vi fu una vera e propria spaccatura, che sfociò, poi, non solo in un insito sentimento di sfiducia nei confronti delle istituzioni, ma soprattutto in una vera e propria corsa a placare il ripetersi di simili fatti di cronaca che, come già detto, interessarono il panorama italiano di quegli anni e che videro solo qualche tempo dopo una progressiva riduzione.

Furono vane le speranze dei familiari di ricongiungersi al proprio caro: infatti, il corpo senza vita dell’On. Aldo Moro venne fatto ritrovare all’interno del bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata contromano in via Caetani, a Roma, il 9 maggio 1978. Il luogo scelto per il ritrovamento del corpo non fu dettato dal caso, ma simbolicamente rappresentava l’idea di un compromesso, che di fatto non avvenne, tra la DC e il PCI, poiché la via prescelta incrocia via Funari, sita nelle vicinanze delle sedi storiche dei due partiti.

Sono trascorsi quarant’anni da quel sequestro ed ancora oggi non sono poche le incertezze e le motivazioni attinenti al sequestro dell’allora presidente della Democrazia Cristiana, il quale fu conosciuto soprattutto per le linee politiche attinenti al cosiddetto compromesso storico proposto da Enrico Berlinguer, esponente del Partito Comunista, alla DC e postulato in alcuni articoli pubblicati nel 1973 sulla rivista “Rinascita”.

aldo moro

Ciò che i due auspicavano di conseguire fu una progressiva apertura al dialogo tra partiti da sempre tra loro distanti, al solo fine di garantire al Paese un governo stabile. Ma tale scelta dialettica non fu esentata da critiche, non solo da esponenti dello stesso partito di Moro ma anche tra i brigatisti che vedevano nell’onorevole il simbolo di un patto che avrebbe inevitabilmente condotto il PCI ad un assoggettamento allo Stato democratico, che loro contestavano.

Il sequestro dell’Onorevole Moro fu solo un pretesto per punire tutta la classe politica, quella stessa classe politica troppo spesso chiusa in se stessa e dedita solo ai propri interessi. Ciò che essi si auspicavano di conseguire non era la semplice dimostrazione del loro palese dissenso nei confronti di uno Stato lontano dagli interessi dei proletari, ma anche porsi con un atteggiamento intimidatorio nei confronti delle Istituzioni ed insinuare un sentimento di paura nei confronti dei cittadini, i quali, dal conto loro, vivevano in un clima di costante tensione. 

In seguito al ritrovamento del corpo di Aldo Moro, Francesco Cossiga si dimise da Ministro dell’Interno, mentre la famiglia Moro rifiutò ogni celebrazione ufficiale ritenendo che qualsiasi manifestazione pubblica o cerimonia sarebbe stata inopportuna. La morte dell’On. Moro fu un importante momento di svolta per la storia del nostro Paese. Si abbandonò progressivamente l’idea di dare vita ad un compromesso storico, e, dal canto loro, i brigatisti continuarono a portare avanti l’opera di demolizione della corrente politica morotea all’interno della DC.

Non furono poche le accuse rivolte alle cariche istituzionali dell’epoca, ritenute responsabili dell’incapacità di dialogare con la fazione politica facinorosa e, quindi, di avere abbandonato ad un infausto destino il sequestrato. Nel maggio dello stesso anno vi furono i primi arresti dei brigatisti coinvolti nel rapimento di via Fani, dunque furono arrestati Enrico Triaca, un tipografo che si era messo a disposizione di Mario Moretti, Valerio Morucci e Adriana Faranda.

Nonostante gli arrestati avanzarono la volontà di volere rinunciare ad una legittima difesa e ad un regolare processo, proclamandosi prigionieri politici ed invocando il diritto d’asilo, venne istituito un regolare processo agli stessi, senza concedere loro alcuno status privilegiato.

Il 24 gennaio 1983 i giudici della Corte d’assise di Roma, al termine di un processo durato nove mesi, inflissero ai sessantatré imputati delle istruttorie “Moro-uno” e “Moro-bis” trentadue ergastoli e trecentosedici anni di carcere. Furono decise anche quattro assoluzioni e tre amnistie, ed ancora, si fece ricorso a quelle circostanze attenuanti di tipo speciale introdotte in precedenza e volte alla concessione di un trattamento di maggiore favore nei confronti di coloro i quali avessero collaborato con le Istituzioni o avessero avuto un ruolo secondario al sequestro.

In secondo grado si diede maggiore rilevanza alle dissociazioni di alcuni brigatisti ai fatti, quindi, si preferì cancellare le pene all’ergastolo e così ridurre le pene di alcuni imputati. Pochi mesi dopo la Corte di Cassazione confermò le pene inflitte in grado di appello. Negli anni si susseguirono nuovi processi (Moro-ter, Moro-quater, Moro-quinquies) che condussero alla condanna di altri brigatisti coinvolti al sequestro dell’On. Moro e ad altri momenti di tensione.

Di Valentina Spinelli


 

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