Il dramma yemenita: dalla rivolta alla guerra civile

Di Davide Renda – Per il dossier Primavere Arabe.

Yemen, fragilità e divisioni

Yemen's former President Ali Abdullah Saleh pauses during an interview with Reuters in Sanaa

L’ex presidente yemenita ‘Ali ‘Abd Allah Saleh

Lo Yemen è un paese estremamente frammentato e fragile, spesso dimenticato nei dibattiti sul Medio Oriente ma di estrema importanza per la stabilità della regione. Di recente unificazione, avvenuta formalmente il 22 maggio del 1990, presenta ancora oggi delle ferite profonde dovute alle forti spinte secessioniste che ancora oggi animano il confronto tra nord e sud del paese. L’unificazione è sempre stata vista dal sud come una conquista da parte del nord, in cui è centralizzato il potere politico e in cui convergono quasi tutti i proventi ricavati dall’estrazione del petrolio. ‘Ali ‘Abd Allah Saleh salì al potere già nel 18 luglio del 1978, ai tempi della Repubblica Araba dello Yemen (oggi corrispondente a grandi linee al nord del paese) e continuò ad essere presidente dello Yemen unificato dal 1990 al 2011. Il suo potere è derivato soprattutto dalla sua capacità di sintesi tra forze conservatrici, moderate e islamiste. Il volano è stato spesso il potere militare usato per reprimere soprattutto le spinte secessioniste del sud, fattore che influenzerà non solo le proteste del 2011 ma l’attuale guerra civile.

Nel 1997, sotto la presidenza di Saleh, nacque un gruppo denominato Al-Shabab Al-Mu’min (la Gioventù credente) con il patrocinio dello stesso presidente. Il gruppo, comandato da Hussein Badr al-Din al-Huti, si proponeva come un’associazione caritativa di stampo sciita zaydita. Dopo gli attentati dell’11 settembre alle Torri Gemelle e la conseguente guerra al terrorismo dichiarata degli USA, il gruppo ha espresso marcatamente le sue posizioni anti-imperialiste, anti-americane e inneggiava per una vittoria dell’Islam. Un movimento così scomodo e destabilizzante non era visto di buon occhio da Saleh, nonostante il supporto alla sua nascita, motivo per cui scaglierà un’offensiva contro gli Huthi distruggendo villaggi e uccidendo migliaia di persone, tra cui il capo degli Huthi. Per legittimare questa guerra civile il presidente accusò gli Huthi di voler riportare lo Yemen ai tempi dell’imamato, supportato da gruppi come Hezbollah e dagli ambienti iraniani.

In quegli anni cominciò a radicarsi nel paese Al-Qaeda, approfittando della posizione strategica dello Yemen e delle vastissime aree abbandonate che verranno prese di mira da Al-Qaeda come stanziamento fisso. La sua presenza determinerà ulteriori anni di guerra interna tra le forze dell’esercito governativo e quelle islamiste, condannando la popolazione ad un ulteriore peggioramento delle sue condizioni di vita.

Lo Yemen è circondato da emirati ricchissimi ma rappresenta una vera e propria isola di miseria. È, dopo il Sudan, lo Djibouti e la Mauritania, il paese più povero del mondo arabo. Quasi la metà della popolazione vive sotto la soglia dei due dollari al giorno; malattie, malnutrizione e mancata alfabetizzazione sono problemi cronici e profondamente radicati nella società yemenita.

Rivolta popolare e passaggi di potere

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Quasi in contemporanea alle rivolte in Tunisia e al tentativo di rivoluzione in Egitto, il 18 gennaio 2011 migliaia di persone e l’opposizione di Saleh cominciarono a protestare nelle strade di Sana’a, Aden e Ta’izz. Povertà, corruzione e l’opprimente regime di Saleh portano la popolazione yemenita ad unirsi per tentare di dare un forte segnale di cambiamento ai loro destini. Le prime fasi delle rivolte vedono decine di migliaia di persone che mettono da parte le loro profonde divisioni per manifestare il loro dissenso verso il presidente Saleh, che annuncerà di non volersi candidare alle elezioni del 2013. In prima linea ci sono giovani, studenti, intellettuali e gente comune, ma è soprattutto il protagonismo e il coraggio delle donne yemenite a stupire. Notiamo come questo è un elemento comune alle altre rivolte e rivoluzioni delle primavere arabe. Nel frattempo, cominciano repressioni durissime sulla popolazione manifestante che aveva raggiunto le 100 mila persone alla fine di febbraio, quando la maggior parte delle tribù si unì alla protesta. L’uccisione di numerosi manifestanti provocherà le dimissioni e le diserzioni di molti apparati statali e militari vicino a Saleh, che si troverà sempre più isolato.

Il Consiglio di cooperazione del Golfo (d’ora in poi chiamato con GCC “Gulf Co-operation Council”) che raccoglie 6 paesi del Golfo Persico, premeva per una soluzione che potesse fermare l’instabilità del paese. La sua mancata firma porterà alcune federazioni tribali e comandanti dell’esercito a supportare l’opposizione e questo porterà al bombardamento del palazzo presidenziale dove Saleh rimarrà ferito il 3 giugno 2011. Fuggito in Arabia Saudita per ricevere delle cure, il potere verrà trasferito nelle mani del suo vice Hadi, che consoliderà la sua posizione nelle elezioni del febbraio 2012. Saleh tornò nel suo paese in cambio di una garanzia di immunità.

La guerra civile e il disastro umanitario

Non furono offerti seggi al gruppo degli Huthi, che aveva anche boicottato le elezioni. Il potere della capitale Sana’a rimarrà fragile e il presidente Hadi non riuscirà a respingere le enormi pressioni degli Huthi, dei separatisti del sud e dei gruppi affiliati ad Al-Qaeda in Yemen. Gli Huthi riusciranno ad entrare nella capitale e il 21 settembre del 2014, stavolta intenzionate ad effettuare un colpo di stato che avrà successo il 6 febbraio del 2015, dopo la presa del palazzo presidenziale da parte dei loro militanti. Verrà dichiarato il Comitato Rivoluzionario Supremo e la costituzione di un nuovo parlamento; il nuovo governo non verrà riconosciuto dalle Nazioni Unite, dagli USA e dal GCC. Si formò una strana “alleanza” tra le forze degli Huthi e i gruppi che volevano ancora Saleh alla presidenza, che a loro volta si erano distaccati dai fedeli ad Hadi, che si ritirarono ad Aden, nel sud del paese. Qui, tutt’ora, stazionano rifiutando di riconoscere l’autorità degli Huthi, anzi riaccendendo la fiamma separatista del sud del paese.

Nel tentativo di ristabilire la legittima presidenza di Hadi, l’Arabia Saudita con una coalizione composta da Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Qatar supportati dai paesi della Nato tra cui USA e Regno Unito, lanciò un’offensiva chiamata Operation Decisive Storm, che consisteva in bombardamenti massicci delle roccaforti degli Huthi insieme ad un blocco navale. A seguire fu decisa un’ulteriore operazione per supportare uno shift politico, chiamata Operation Restoring Hope, ma di fatto le operazioni di guerra continuarono e perdurano ancora oggi.

Le conseguenze della guerra portarono ad una estrema drammatizzazione delle condizioni umanitarie del paese, che si trovavano in un vero e proprio disastro. Ong e organizzazioni per i diritti umani hanno condannato pesantemente l’Arabia Saudita per gli attacchi ripetuti ai civili e alle infrastrutture tra cui ospedali. Il blocco navale, inoltre, lasciò il 78% della popolazione Yemenita senza cibo, acqua e aiuti medici.

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L’ex presidente Saleh è stato assassinato a dicembre 2017, successivamente alla sua tentata fuga supportata dall’Arabia Saudita in cambio della rottura con gli Huthi. I conflitti per la riconquista della capitale Sana’a continuano ancora oggi in uno Yemen estremamente frammentato in cui molteplici forze continuano a contendersi il potere politico e territoriale, come testimoniato dalla mappa datata 1° maggio 2018. Il territorio in verde rappresenta l’attuale terreno sotto controllo degli Huthi, quello in rosso è in mano alle forze separatiste del sud e/o fedeli all’ex presidente Hadi, e quelli in bianco sono i territori in mano alle fazioni affluenti ad Al-Qaeda e alcune milizie affiliate all’ISIS.


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