“Suffragette” storia di gabbie e catene, e di come si sono spezzate

Di Silvia Scalisi – Film ambientato a Londra nei primi anni del ‘900, “Suffragette” (2015) ci racconta la storia di Maud (Carey Mulligan), giovanissima donna che lavora in fabbrica dall’età di sette anni: la sua vita è costellata da continui sacrifici e vessazioni, costretta a lavorare in un ambiente malsano e con la paura costante di subire violenza dal proprio datore di lavoro.

Come lei, anche le sue colleghe vivono questa situazione: sottopagate rispetto agli uomini, a fronte di più ore di lavoro settimanali, mortificate, umiliate nella loro dignità. L’unica gioia della sua vita è il figlioletto George, che riesce a coccolare la sera con le ultime forze residue dopo la massacrante giornata.

Un giorno, casualmente, Maud si avvicina al movimento delle Suffragette, e inizia a sposarne la causa. Inizialmente scettica e paurosa, Maud inizierà a riflettere con la propria testa, a pensare che qualcosa, forse, si può cambiare, spinta anche dal carisma e dalla tenacia delle sue compagne. Comincerà, in tal modo,  a credere di più in se stessa, finendo col partecipare attivamente alle azioni del movimento, anche dopo aver sentito il discorso di Emmeline Pankhurst (interpretata da Meryl Streep), attivista e guida delle suffragette del Regno Unito, che la colpirà molto profondamente.

«Ho capito che io non valgo né più, né meno, di voi», scriverà in una lettera indirizzata all’ispettore Steed, che la arresterà più volte a seguito dei disordini e delle manifestazioni organizzati insieme alle sue compagne, racchiudendo in una sola frase quello che era l’intento di tutte le donne: essere trattate nel medesimo modo degli uomini, essere rispettate, essere accettate, essere semplicemente uguali. E il diritto al voto era il primo passo da compiere in questa strada tortuosa e piena di ostacoli. Poco importava se per attirare l’attenzione fosse necessario urlare nelle piazze, mettere piccoli ordigni esplosivi nelle cassette della posta, rischiare la proprio stessa vita.

Perché per la prima volta Maud si sente parte di qualcosa di importante. Per la prima volta la speranza illumina il suo volto, pallido ed emaciato per gli stenti e per le botte prese da suo marito, dai poliziotti, dal suo datore di lavoro. Per la prima volta si rende conto della visione maschilista e possessiva che vede la donna come un oggetto di proprietà degli uomini.

«Tu sei una madre, una moglie, mia moglie!», è quello che tuona Sonny, marito di Maud, furente dopo aver avuto la conferma che la donna è una suffragetta; «Non sono più soltanto questo», gli risponderà Maud in lacrime, esprimendo il disagio ormai insostenibile di essere ingabbiata nelle convenzioni imposte dalla società. Cosa può essere una donna se non madre, moglie, figlia, sorella di qualche uomo? La donna vista sempre e soltanto in relazione all’uomo di riferimento, che sia un padre, un fratello, un marito, come se da sola, non contasse nulla.

La regista Sarah Gavron costruisce l’intero film in un’atmosfera grigia e cupa, come se volesse richiamare quei fumi e quei vapori malsani che le donne erano costrette a respirare quotidianamente nelle fabbriche, e che ammalano i loro polmoni, e le loro anime.

Solo alla fine la pellicola tenta di riacquistare luce, con le ultime scene irradiate da un sole caldo in un cielo azzurrissimo, che colpisce l’erba verde e gli eleganti vestiti chiari e puliti delle protagoniste (fino a quel momento sempre scuri, sporchi, infangati): una metafora di quella speranza che avrebbe portato al cambiamento e alla conquista di quei diritti che oggi possono apparirci scontati, ma che invece nascondono decenni di sacrifici e battaglie.