Sogno, coma, realtà: re-imparare a vivere

Di Ester Di Bona – S. ha 33 anni, lavora in un centro scommesse e vive con i suoi genitori. Ogni giorno affronta la vita con dinamicità e voglia di fare, nonostante a 13 anni abbia scoperto la malattia con cui convive ormai da 20 anni, entrando in coma. Di quei giorni in ospedale l’unico ricordo che resta è un sogno, rimasto straordinariamente impresso nella sua mente una volta risvegliatasi.

«Il primo segnale l’ho avuto a 12 anni, un giorno andai in bagno e svenni nella vasca.  Diedero subito la colpa all’influenza che girava in quel periodo, pensavano non fosse comunque nulla di grave. Intanto il mio corpo aveva cominciato, dopo l’inizio dello sviluppo ormonale, a deperire sempre di più, perdevo peso, bevevo litri e litri d’acqua e andavo in bagno anche 20 volte al giorno, avevo la pelle squamosa».

Cosa ricordi del giorno in cui sei entrata in coma?

«A gennaio mio padre mi portò a fare degli esami e il medico, guardandomi, notò subito il colorito anomalo della pelle, obbligandoci a correre immediatamente in ospedale: avevo la glicemia a 620. Io chiedevo solo acqua. Dopo l’ennesima richiesta, quel giorno in ospedale, ho perso conoscenza. Da lì sono passati dei giorni che io ricordo solo in un sogno».

Cos’hai sognato?

«C’ero io, in un campo aperto, grande, con un abito elegante color pesco. In mezzo al campo c’era una torre che dovevo raggiungere, intorno il nulla. Cominciavo a camminare verso di lei, quando improvvisamente questa crolla su se stessa davanti ai miei occhi. Il sogno si interrompe e mi sveglio con l’odore del cornetto che stava mangiando mia madre: erano passati nove giorni da quando ero entrata in coma».

Dopo che sei uscita dal coma cos’è successo?

«Pesavo 30 Kg, i medici non capivano, lo vivevano come un “miracolo” perché era l’ultimo stato della malattia. Il mio tipo di diabete era un caso singolo (menito 1), non genetico, manifestatosi per due motivi principalmente: fattore ormonale, ovvero gli ormoni, impazzendo, hanno distrutto le cellule pancreatiche, e fattore emotivo, dovuto ad un trauma avuto a 6 anni che mi ha fatto vivere in modo turbolento il distacco con mia madre nel primo periodo scolastico, non avendo fatto l’asilo. “Portatrice sana” di un trauma che poi è sforato nel diabete con quegli episodi ormonali. Da allora convivo da 20 anni con l’insulina, ma ho sempre paura che crolli tutto».

Hai più fatto “il sogno del coma”?

«Non avevo mai rivissuto quel momento fino a qualche giorno fa, in cui addormentandomi è tornato lo stesso sogno di quei giorni. Ero io, ma non ero più la bambina di quel tempo, ero la me di adesso con i suoi bei 33 anni, c’erano le stesse colline, la stessa immensità, ma non ero sola: intorno a me c’erano tante abitazioni e persone, persone che non conoscevo o che comunque non riuscivo a identificare. Come 20 anni fa, avevo un obbiettivo, camminavo verso qualcosa, e davanti a me c’era sempre lei, la torre, ma era ancora in piedi. Non era crollata, e la riuscivo quasi a raggiungere, ma mentre mi dirigevo verso di lei c’erano sempre tante persone che mi accompagnavano. Anche stavolta, mi sveglio prima di arrivare al mio obbiettivo, però la torre non è crollata, è rimasta in piedi».

Come hai interpretato questo sogno, nel corso degli anni?

«È difficile, in realtà. Ai tempi non lo consideravo nè bello, nè brutto, era semplicemente un sogno, ma il risvegliarmi dopo averlo fatto e vedere il sorriso della mia famiglia lo ha reso automaticamente qualcosa di positivo. Il sogno recente lo interpreto come il mio cammino che sto affrontando e che si è arricchito di persone che mi aiutano e mi sostengono: nonostante non identifichi nessuno in particolare so di avere qualcuno che mi guida nel percorso che ho iniziato 20 anni fa. Non la vivo male, per me  è un motivo di gioia guardare indietro e vedere quel che sono diventata ».

Quando si è piccoli è difficile accettare e convivere con una malattia, come l’hai vissuta? Gli altri bambini come hanno reagito?

«La prima cosa che ho dovuto imparare a fare sono le iniezioni di insulina. In ospedale avevo due infermieri che chiamavo “i miei angeli custodi” che mi hanno insegnato tutto, così piano piano ho cominciato a farle da sola. Alle medie i miei compagni mi vedevano come quella “diversa”, a 13 anni si è ancora troppo piccoli per capire certe cose e mi è pesato essere emarginata. Fortunatamente alle superiori è cambiato tutto, ho trovato gente che mi stava accanto senza problemi, ho avuto inoltre il supporto di una mia cugina iscritta alla mia stessa classe, ed è andato tutto per il meglio».

E adesso che sei adulta e più consapevole rispetto a prima?

«Generalmente tendo a non dar troppo peso alla malattia in sè, ho imparato ad accettarla come parte di me, quindi se devo parlare di chi sono e cosa faccio generalmente il diabete lo lascio alla fine della lista, e le iniezioni di insulina le faccio con naturalezza quando devo farle, senza pormi il problema di dove sono e con chi. Devo prima avere cura del diabete, quindi di me stessa. Se lo curi è solo un compagno di vita, se non ne hai cura può diventare un mostro».

In che modo pensi questa esperienza abbia influito sulla tua persona?

«Sono convinta che nella vita gli ostacoli siano necessari, perché ti aiutano a fare meglio, ti fanno crescere ed acquisire maggiore consapevolezza e rispetto per te stessa. Io ho molta più cura per me ed il mio corpo, faccio una vita sana. So che esistono patologie più serie della mia, ma è importante adattarsi, prendere la vita come viene, apprezzarla e non buttarsi giù».