Politiche 2018: reset del Pd e sconfitta per la leadership di Forza Italia

Di Giuseppe Sollami – Proiezione dopo proiezione il risultato è chiaro: Partito Democratico e Forza Italia, le forze tradizionali di centrosinistra e centrodestra, che per anni hanno retto le sorti del gioco politico italiano, accusano il colpo, piegandosi al fiume in piena del Movimento 5 Stelle e della Lega.

Un risultato storico per il centrodestra italiano: mai, nel corso della sua esistenza, il partito di via Bellerio aveva sorpassato il movimento di Silvio Berlusconi, portando la Lega ad imporsi come primo partito di coalizione; questa imposizione giocherà un ruolo fondamentale per la scelta del prossimo governo, dal momento che la coalizione di centrodestra è quella candidata a ricevere il mandato esplorativo del Presidente della Repubblica per la formazione del nuovo governo.

Bisognerà solo vedere se Matteo Salvini continuerà a dialogare con gli alleati di coalizione o proverà a sondare il terreno del Movimento 5 Stelle, altro grande vincente di questa tornata, per un’ipotetica formazione di un governo a traino destrorso.

Qual è lo scotto che paga Berlusconi e il suo partito? Sicuramente una campagna elettorale basata su una serie di promesse irrealizzabili come la solita cancellazione di alcune tasse patrimoniali, alla quale evidentemente, una parte dello storico elettorato berlusconiano non ha creduto più. Il baricentro della leadership liberale si sposta più a destra da oggi, con conseguente inasprimento di quella parte di elettorato di politica antimigratoria e federalista.

Dall’altra parte abbiamo una vera e propria “Caporetto” della politica italiana, rappresentata dal tonfo incredibile del Partito Democratico. Il partito governante uscente paga un conto amaro, vedendo calare i suoi consensi da circa il 50%, passando dal 40,8 delle Europee 2014 al quasi 20% di queste politiche: Matteo Renzi e la sua squadra dovranno immediatamente ripensare alla riorganizzazione del partito, che partirà molto probabilmente dall’epurazione della classe dirigente nazionale, a partire dalle dimissioni del Segretario.

Cosa no ha funzionato nel Pd? Sicuramente, chi viene da un’esperienza di governo paga delle scelte impopolari, ma non possiamo negare che il governo portato a conclusione da Paolo Gentiloni sia stato malaccio, anzi: riconosciuto da molti un premier autorevole, moderato e soprattutto ottimo per fungere da collante tra parti diverse: non è escluso, nell’ipotesi – abbastanza realistica – che vi siano grosse difficoltà a trovare i numeri giusti per chiedere la fiducia delle Camere, un “Gentiloni bis”, un governo di scopo, guidato dal Presidente del Consiglio uscente, con appoggio di Lega e Forza Italia, con termometro politico a guida Pd.

Tornando alle cause della debacle democratica, una delle cause principali è sicuramente la forza delle classi dirigenti locali: un partito che negli ultimi anni ha parlato di rottamazione del sistema ma poi al suo interno, nella fattispecie, in ambito locale, è gestito da dirigenti vecchi quasi quanto la gloriosa Democrazia Cristiana, è un handicap che non ha fatto spiccare il volo. Il continuo riciclo di nomi candidati e un sistema baronale simile a quello medioevale di tipo feudale, è sicuramente il mix perfetto per decretare un totale abisso del progetto democratico. Ad oggi, paradossalmente, la vera forza di centrosinistra (dove peraltro, sono defluiti quasi tutti i voti democratici) è rappresentata dal Movimento 5 Stelle.

Rinnovamento della segreteria nazionale sì, sicuramente è un passo obbligatorio conseguente a una batosta di tali dimensioni, ma pensare alla sostituzione totale o parziale della classe dirigente locale, è sicuramente un’ottima medicina se si vuole ricostruire un centro sinistra con un grande partito riformista. Le carenze strutturali possono essere sanate solo con un’ampia rivisitazione della struttura stessa: è inutile guardare solamente all’aspetto o ai programmi, è necessario un nuovo capitolo, un voltare pagina definitivo.

Ci avviamo verso una divisione del parlamento nuova: non come l’abbiamo intesa fino a ieri – tra democratici e liberali, tra destra e sinistra – ma tra anti-sistema e “sovranisti”.


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