Economia e potere: il caso greco

Di Vincenzo Mignano – All’interno di questo scenario, il livello di indebitamento pubblico in alcuni Stati dell’Unione europea – piuttosto elevato già prima che l’onda della crisi esplosa negli Stati Uniti investisse l’Europa – ha notevolmente contribuito alla crescita di quelle divergenze economiche che, ancora oggi, costituiscono un ostacolo alla creazione di un mercato comune efficiente, nel più ampio quadro del processo di integrazione europea.

Nonostante siano state attuate strategie economiche e strutturali, intese a rafforzare la flessibilità e a favorire la concorrenza, per consentire agli Stati membri di aumentare la crescita potenziale e l’occupazione, lo stock di debito pubblico si è ulteriormente aggravato in quei paesi già considerati a rischio, identificati, in senso chiaramente dispregiativo, con l’acronimo PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). L’origine di tale peggioramento è da rintracciarsi in alcuni fattori, tra cui: l’assenza di una politica fiscale comune e un’interpretazione molto rigida del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).

In particolare, gli artt. 123, 124 e 125, letti in combinato disposto, prevedono una serie di divieti in capo all’Unione e agli Stati membri, come quello di rispondere o di farsi carico degli impegni di un altro Stato membro.

Tali considerazioni di carattere giuridico-economico forgiano quella base scientifica essenziale per poter comprendere le vicende legate al caso ellenico. Non a caso, l’insufficienza delle risorse di bilancio dell’UE ha convinto i Capi di Stato e di Governo che, per fronteggiare la crisi ed aggirare i vincoli posti dal TFUE, era necessario operare al di fuori del diritto dell’Unione, tramite strumenti di diritto internazionale, come il Meccanismo europeo di Stabilità (MES).

Con specifico riguardo al caso ellenico, l’aumento del rapporto deficit/PIL sino al 12,5%, annunciato dal governo greco nel 2009, ha provocato una pesante reazione dei mercati finanziari, con un forte deprezzamento dei titoli di debito pubblico greco.

Per effetto di questo processo, lo Stato greco si è ritrovato nell’impossibilità di emettere nuovi titoli di debito ad un tasso accettabile. Anche se è stato più volte ipotizzato di lasciare la Grecia al suo destino, i Capi di Stato e di Governo dei paesi dell’UE hanno deciso di intervenire a favore della stessa, con la prerogativa di mantenere la tenuta complessiva del sistema euro e la sua credibilità a livello internazionale: in tal senso, è stato previsto un pacchetto di misure, al di fuori del diritto dell’Unione Europea, tra cui un finanziamento di 30 miliardi di euro del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e un accordo di finanziamento tra la Grecia e gli altri Stati dell’Eurozona.

Tali interventi di natura economica, però, vanno interpretati alla luce di due importanti aspetti ad essi direttamente collegati: da una parte, l’insostenibilità del debito greco, in considerazione della situazione generale del Paese; d’altra parte, l’intrusività, nella sovranità della Grecia, delle misure richieste in cambio della corresponsione dei finanziamenti necessari. Si tratta di dinamiche che trovano la loro base nelle rigide condizioni poste a fondamento dell’accesso a tali strumenti.

Queste dinamiche hanno posto degli interrogativi circa l’idoneità delle modalità del processo di determinazione delle condizioni suddette ad essere qualificate come un’interferenza internazionale negli affari interni dello Stato ellenico.

Se si pone l’accento sulle decisioni assunte dalle istituzioni greche, pur riconoscendo le pesanti responsabilità dei governi ellenici del primo decennio degli anni 2000, ci si rende conto della complessità che vi è stata nel dibattito tra i soggetti creditori e la Grecia in ordine alla possibilità per quest’ultima di invocare lo Stato di necessità, che, com’è noto, consente di sottrarsi all’adempimento degli obblighi assunti: si pensi a quel che si è verificato con riferimento alla rata di pagamento del debito greco nei confronti del FMI, in scadenza nel giugno del 2015, e che il Governo Tsipras I aveva dichiarato, già in Maggio, di non poter pagare, a fronte dell’esigenza primaria di corrispondere stipendi e pensioni.

Appare chiara la difficoltà di imputare a tale Governo l’insostenibilità del debito greco: questa sarebbe meglio configurabile, di fatto, come una continuazione della gravissima recessione, in atto fin dal 2010. Non sembra, inoltre, parimenti facile sostenere che vi sia stato, in tal senso, un contributo determinante, da parte del medesimo Governo Tsipras I, ad un probabile peggioramento della suddetta recessione: non a caso la stessa Commissione di diritto internazionale lo ha qualificato come “incidental or peripheral”, nel proprio commento all’art. 25 del Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati del 2001 (Progetto 2001), il quale enuclea le condizioni necessarie per poter invocare lo Stato di necessità.

Nonostante la situazione odierna veda l’economia greca in timida crescita, le politiche di austerità richieste allo Stato ellenico – a fronte dei 240 miliardi di euro in fondi di emergenza forniti dall’UE e dal FMI – e le onerose condizioni cui l’accesso agli strumenti finanziari è sottoposto, sembrerebbero concedere solo piccolo respiri, determinando un gioco nel quale l’economia diventerebbe l’arma ideale per controllare uno Stato.


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