La senatrice Liliana Segre, instancabile voce della memoria

Nata a Milano il 10 settembre 1930, Liliana Segre rimase orfana di madre quando non aveva ancora compiuto un anno e visse insieme al padre e ai nonni paterni. Vedova di Alfredo Belli Paci, sposato nel 1951, è madre di tre figli.

Liliana, testimone di una delle pagine più atroci della storia, era una bambina quando seppe che non sarebbe potuta tornare a scuola, poiché agli ebrei dal 1938, dopo la proclamazione delle leggi razziali in Italia, fu proibito. «Era la prima porta chiusa della mia vita, espulsa per la sola colpa di essere nata, mi restò addosso con una tristezza infinita. Lì sono diventata la bambina ebrea».

Liliana visse nascosta, ma fatale fu il tentativo di espatriare in Svizzera: il 10 dicembre del 1943 fu respinta dalle autorità elvetiche e venne arrestata assieme al padre e a due cugini a Viggiù. Furono dapprima reclusi nel carcere di Varese, poi di Como e infine a San Vittore, a Milano. Era felice lì, dice, pur piangendo per molte ore, perché aveva accanto suo papà.

Quando le chiedono cosa l’abbia tenuta in vita in mezzo a quello che ha attraversato dice senza esitare che «è stato l’amore di suo padre». Fu caricata su uno dei convogli che dal binario 21 della stazione centrale di Milano, partivano verso i lager nazisti. La sua destinazione fu Auschwitz, dove visse il suo dramma fatto di umiliazioni, fame, dolore e fatica, perché costretta a lavorare in una fabbrica di munizioni.

Alla selezione, le venne imposto e tatuato sull’avambraccio il numero di matricola “75190”. Non rivedrà mai più il padre, che morì ad Auschwitz il 27 aprile 1944. Anche i suoi nonni paterni, arrestati il 18 maggio 1944, furono deportati ad Auschwitz, dove furono uccisi il giorno stesso del loro arrivo, il 30 giugno dello stesso anno.

Quando la guerra era ormai alla fine affrontò una lunga marcia di trasferimento con altri prigionieri finché le truppe alleate, il primo maggio del 1945 a Malchow, liberarono lei e gli altri prigionieri nei pressi del campo di sterminio di Ravensbruck. Liliana Segre è tra i 25 bambini italiani (su 776) sopravvissuti all’olocausto. «Fummo scelti per la vita in 128. Il mio numero 75190 non si cancella: è dentro di me. Sono io il 75190. I lager nazisti erano isole circondate dal silenzio. Il silenzio della Chiesa, i cui vertici non denunciarono mai. E li su quelle strade, io ho visto un corteo di fantasmi in marcia. Come abbiamo fatto non lo so: forse era quella che chiamano la forza della disperazione».

Nel 1990, dopo 45 anni di silenzio, si rese per la prima volta disponibile a partecipare ad alcuni incontri con gli studenti delle scuole di Milano, portando la sua testimonianza di ex deportata. Da allora Liliana inizia un’instancabile attività di divulgazione nelle scuole di tutte Italia, nei convegni, in film documentari come testimone di cosa furono e significarono anche in Italia le persecuzioni razziali: «Lo racconto sempre ai ragazzi perché devono sapere, e quando si passa in una stazione qualsiasi e si vedono i vitelli o i maiali portati al mattatoio, penso sempre che io sono stata uno di quei vitelli, uno di quei maiali». Ai ragazzi chiede di scoprirsi forti e di opporsi a odio e indifferenza.

Il 29 novembre 2004 è stata insignita dell’onorificenza di Commendatore nell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, conferitagli dall’allora Presidente Carlo Azeglio Ciampi; nel 2005 le fu consegnata la Medaglia d’oro della riconoscenza della Provincia di Milano. Il 27 novembre 2008 ha ricevuto la Laurea honoris causa in Giurisprudenza dall’Università degli Studi di Trieste, mentre il 15 dicembre 2010 l’Università degli Studi di Verona le ha conferito la Laurea honoris causa in Scienze pedagogiche. È inoltre Presidente del Comitato per le Pietre d’inciampo di Milano, che raccoglie tutte le associazioni legate alla memoria della Resistenza, delle deportazioni e dell’antifascismo.

A 80 anni dalle leggi razziali, Liliana Segre entra a Palazzo Madama con tutta la sua umiltà ed umanità e lei stessa afferma «di non potersi dare altra importanza che quella di essere un araldo, una persona che racconta ciò di cui è stata testimone».


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