Eutanasia: un tema complicato su cui fare luce

Giovedì 14 dicembre, in seguito a decine di migliaia di emendamenti, il Senato ha approvato la legge sul testamento biologico; si tratta di una svolta fondamentale e ampiamente auspicata nell’ambito del nostro ordinamento, ma che per vari motivi, non può definirsi esaustiva e completa.

Il tema dell’eutanasia è balzato nuovamente sotto l’attenzione dell’opinione pubblica, in seguito all’intervista, trasmessa dal programma televisivo “Le Iene”, di dj Fabo, un ragazzo costretto ad “emigrare” in Svizzera per porre fine alle sue terribili condizioni di vita, con le quali conviveva da anni dopo un tragico incidente che lo aveva ridotto in uno stato vegetativo e in uno stato di permanente cecità. Per lungo tempo la mancanza di una normativa ad hoc, riguardante la possibilità di provvedere tramite eutanasia anche con il consenso del soggetto interessato, ha richiesto l’intervento della giurisprudenza, la quale è stata chiamata all’individuazione di possibili soluzioni.

Ricorderemo tutti il noto caso Welby e il caso Englaro in quanto sono stati oggetto di interessamento e coinvolgimento da parte dell’opinione pubblica. Ma cosa si intende per eutanasia e quali sono le questioni giuridiche che rilevano in tale ambito? L’eutanasia consiste nel cagionare al malato una morte dolce, priva di sofferenza, al fine di sottrarlo ad un condizione insopportabile in cui le prospettive di miglioramento sono nulle e per le quali è costantemente necessario un supporto medico. Dal punto di vista giuridico, parte della dottrina, ha ritenuto lecito l’atto eutanasico nell’ipotesi di consenso del paziente, sostenendo non sussistente il fatto di reato ex.art 579 c.p. cioè omicidio del consenziente, in ragione della mancanza di dolo. Si tratta tuttavia di una tesi marginale, che non ha trovato il riscontro della Giurisprudenza, la quale ha ritenuto, in tali casi, sussistente il dolo e quindi il perfezionamento del reato de quo.

Ma vediamo come i nostri giudici hanno affrontato le diverse questioni poste sotto il loro giudizio; si tratta  casi divergenti in quanto nel primo caso era lo stesso soggetto interessato a richiedere l’interruzione della propria vita, nel secondo caso invece erano soggetti terzi; il primo dei casi maggiormente rilevanti, così come avevamo anticipato, è stato quello di Piergiorgio Welby. Questi era affetto da una gravissima malattia degenerativa, per la quale non esistevano trattamenti sanitari curativi o comunque in grado di arrestarne il decorso; la patologia però non era tale da privare lo stesso della coscienza e della capacità di intendere e di volere e proprio per questo, la insostenibilità delle sue condizioni lo aveva indotto a chiedere al medico e alla struttura che lo aveva in cura, di staccare il respiratore artificiale al fine di praticare la sedazione artificiale.

Il problema giuridico che si era posto era quello di stabilire quale fosse il limite della libertà di autodeterminazione di ogni individuo e in particolare se fosse ammissibile che un soggetto potesse decidere il momento terminale della propria vita ossia potesse richiedere che gli venisse praticata l’eutanasia, tenuto conto che il diritto alla vita è un diritto assoluto ed indisponibile anche per lo stesso titolare. Welby agiva dinnanzi al Tribunale di Roma, ex art.700 cpc, quindi in via cautelare ed di urgenza, chiedendo che venisse accertato il “diritto di manifestare il proprio consenso a taluni trattamenti ed il rifiuto di altri”. Il Tribunale di Roma con ordinanza del 2006, ritenne inammissibile la richiesta di Welby, motivando sulla base della mancata definizione, in sede normativa, delle modalità attuative di quanto richiesto. Nonostante ciò, pochi giorni dopo l’emanazione dell’ordinanza, un medico anestesista praticò la sedazione di Welby  ed il distacco del ventilatore automatico. Il medico, chiamato a rispondere del reato ex art. 579 c.p. ha ritenuto la condotta scriminata ai sensi dell’art.51 c.p. che prevede appunto, la scriminante dell’adempimento del dovere.

Altro caso tristemente noto, è quello di Eluana Englaro. In questo caso la giurisprudenza si era interrogata circa la possibilità che nelle ipotesi in cui il malato avesse perso la capacità di autodeterminazione, fosse stato  possibile che il rifiuto alle cure venisse  dato da un curatore speciale. La Suprema Corte, chiamata ad esprimersi sulla questione, provvedeva tramite bilanciamento di due diritti costituzionalmente garantiti, ovvero il diritto alla vita e il diritto alla salute, collocando al primo posto la libertà di autodeterminazione terapeutica; tale diritto, secondo opinione della Corte, non può essere negato neanche nel caso in cui il soggetto malato non sia neanche in grado di manifestare la propria volontà, prevedendo che in tale caso legittimato sia il suo legale rappresentante, che potrà quindi richiedere l’interruzione dei trattamenti che mantengono in vita il malato.  Tuttavia il consenso del rappresentante non è illimitato ma soggetto a diversi vincoli: che la scelta risponda al migliore interesse del rappresentato, che la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale che lasci supporre la benchè minima possibilità di un qualche recupero della coscienza e di ritorno di percezione del mondo esterno ed infine che l’istanza sia espressione della volontà del paziente medesimo, deducibile dalle  sue precedenti dichiarazioni, personalità e stile di vita.

Ma  torniamo ai nostri giorni, cosa prevede in particolar modo questa legge? Il testo, composto di 8 articoli, prevede che nessun trattamento sanitario possa essere “iniziato o proseguito se privo di consenso libero e informato della persona interessata”, viene cioè “ promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, il cui atto fondamentale è il consenso informato”. Altra particolare novità è costituita dalle DAT, ovvero dalle disposizioni anticipate di trattamento, le quali consentono al soggetto maggiorenne di indicare a quali esami, scelte terapeutiche o singoli trattamenti sanitari, questi intenda sottoporsi nel caso in cui in futuro dovesse trovarsi in uno stato vegetativo e quindi in uno stato di incapacità di decidere o comunicare ciò che si vuole. Nell’ambito delle DAT può essere anche indicato  un soggetto rappresentante al quale sarà attribuito il potere di scegliere al posto del malato.

Tuttavia anche in questo caso, vi è un limite: il medico dovrà disattendere il contenuto delle DAT, qualora rilevi che le indicazioni ivi contenute siano “palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente” e se vengano “scoperte terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”. In ogni caso, in presenza o in assenza di DAT la volontà del malato va rispettata. In linea generale quindi il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente e in conseguenza di ciò è esente da responsabilità penale e civile. Un notevole passo avanti quindi per la piena affermazione del diritto all’autodeterminazione che però richiederebbe un ulteriore intervento, al fine di consentire di porci al passo con le discipline meno rigide previste negli altri ordinamenti europei. 

Ma come viene disciplinata tale fattispecie negli altri ordinamenti europei? Tra i paesi, mete di quanti desiderano porre fine alla propria vita, vi è sicuramente la Svizzera.  A tal proposito si parla di suicidio assistito, in quanto deve essere il malato a compiere l’ultimo gesto per assumere i farmaci che gli saranno letali, se il malato non può in nessun modo esprimere la propria scelta, i medici non possono proseguire in alcun modo. La procedura ha inizio con l’assunzione da parte del malato, di un medicinale che condurrà all’arresto cardiaco, cioè il Pentobarbital; tale procedura in Svizzera è legittima grazie all’art.114 del codice di procedura penale svizzero e prende il nome di “suicidio assistito”. 

Guardando le normative di riferimento degli altri ordinamenti europei, balza all’attenzione come l’Italia sia uno dei pochi ordinamenti a non ammettere né l’eutanasia attiva,  né passiva e nè indiretta. Altri Paesi come la Gran Bretagna ammettono invece l’interruzione delle cure ma solo in casi estremi, ma non anche il suicidio assistito ed eutanasia attiva; l’Olanda invece ammette l’eutanasia e il suicidio assistito anche di minori, mentre la Germania ammette l’eutanasia passiva e il suicidio assistito. Infine, la Francia  ammette l’eutanasia passiva con consenso dei medici ma non l’eutanasia attiva e il suicidio assistito. Si tratta di un tema complicato, in cui è difficile e forse anche imbarazzante assumere posizioni nette, ad ogni modo tutti dovremmo avere diritto ad una vita ed esistenza degna e proprio per questo motivo, ognuno di noi dovrebbe avere il diritto di scegliere cosa sia per se stesso una vita degna di essere vissuta.

Deborah D’Amico