Il disimpegno di Trump sul piano internazionale

Trascorso poco meno di un anno dall’ascesa di Donald J. Trump alla Presidenza degli Stati Uniti d’America, lo scenario globale si presenta radicalmente mutato: tra incidenti diplomatici e mal celate ostilità internazionali, la nuova linea politica di Washington ha influito notevolmente sulla tenuta degli equilibri geopolitici globali.

Uno dei settori su cui si è concentrata maggiormente l’attività del Presidente USA, per l’appunto, è proprio quello della politica estera: già dalla sua campagna elettorale, the Donald aveva criticato aspramente – talvolta, con ragioni più che fondate – l’operato di Obama, accusandolo di non aver portato avanti gli interessi americani e di non aver tutelato adeguatamente il suo popolo; un cambiamento di rotta nelle scelte concernenti la politica estera era, dunque, non solo prevedibile, ma anche necessario e, soprattutto, fortemente voluto dai cittadini americani, che risentono ancora degli effetti della crisi economica e che continuano a maturare quel sentimento di malcontento, che ha condotto loro a supportare la linea politica protezionistica di Trump e a vedere, in lui, una moderna rappresentazione dell’agognato american dream.

Si è lungamente dibattuto in merito al disimpegno del Presidente Trump sul piano internazionale; tale affermazione, pur ponendo alla luce un’indiscussa verità, necessita di essere correttamente interpretata: se è vero, infatti, che gli Stati Uniti hanno pubblicamente annunciato il loro ritiro da alcuni accordi multilaterali e hanno espresso la volontà di riformare l’assetto delle principali organizzazioni internazionali – tra cui ONU e NATO -, è altresì vero che le azioni militari all’estero assunte dal Pentagono sono raddoppiate e che si continua ad assistere ad un indiscusso protagonismo statunitense sullo scenario globale. Sarebbe più opportuno, forse, parlare di un disimpegno sul piano dei rapporti inter-statali, a totale vantaggio di una politica nazionalista e individualista, imperniata sul principio dell’ “America first”, che rievoca alla mente – e non casualmente – i retaggi di una destra estremamente conservatrice, investita periodicamente dalle spinte imperialiste di un leader carismatico.

Appare chiaro, infatti, che la scelta politica di Trump sia quella di ridisegnare gli accordi internazionali multilaterali, in favore di accordi bilaterali che, secondo la Presidenza, sono maggiormente idonei a ridurre la disoccupazione nel territorio americano e a creare nuove strutture imprenditoriali. Sulla base di questa linea politica, Donald Trump ha annunciato il ritiro dalla Trans-Pacific Partnership, una cooperazione che coinvolge gli Stati Uniti e undici Paesi del continente asiatico, e che rappresenta oltre il 40% dell’economia mondiale.

In ambito commerciale, the Donald è intervenuto anche in relazione al Nord American Free Trade Agreement, che dal 1994 ha creato una zona di libero scambio tra Canada, Messico e Stati Uniti; già dalla sua campagna elettorale, il Presidente Trump non aveva nascosto la sua contrarietà a questo accordo ed è giunto, perfino, a definirlo come il peggiore accordo mai concluso dagli Stati Uniti. L’atteggiamento della Presidenza, infatti, come in passato, è duplice: the Donald sembra essere rigido e intollerante nei confronti del Messico, considerato come un bacino disoccupazione ad alta criminalità, che si riversa nel territorio statunitense; sembra, invece, essere meno intransigente con il Canada, che resta uno dei principali importatori di prodotti statunitensi, nonché il maggior esportatore di petrolio verso gli USA. Anche in questa ipotesi, la Presidenza ritirerà la sua partecipazione all’accordo multilaterale, in favore di accordi bilaterali; accordi che, quasi certamente, rifletteranno i dissapori di Washington, a totale svantaggio del vicino Messico.

Quanto alla World Trade Organization, già durante il G20 di Amburgo gli USA avevano preannunciato di recedere dall’Organizzazione, in favore della stipula di accordi bilaterali in ambito commerciale. L’adeguamento dei dazi doganali, secondo l’amministrazione Trump, è l’unica via per favorire l’esportazione all’estero di prodotti statunitensi; tale prassi, tuttavia, rischierebbe di contrastare con l’assetto preesistente della WTO, che mira, tra l’altro, a ridurre le diseguaglianze economiche tra Stati, tentando di creare le condizioni che permettano a tutti i Paesi di commerciare secondo criteri di equità.

Per quanto concerne le organizzazioni internazionali, Trump continua a chiedere una riforma dell’assetto istituzionale delle Nazioni Unite, in vero necessaria e fortemente voluta anche da altissime personalità del Palazzo di Vetro. Gli Stati Uniti, infatti, rappresentano il maggiore finanziatore dell’ONU, e l’Ambasciatrice USA presso le Nazioni Unite, Nikki Haley, continua a mantenere la linea rigida di Washington, pur godendo della rappresentanza permanente all’interno del Consiglio di Sicurezza e del diritto di veto, capace di bloccare ogni risoluzione contraria alle politiche degli Stati Uniti e delle altre quattro super potenze uscite vittoriose dalla seconda guerra mondiale. Sembra essere oscillante anche la posizione della Presidenza nei confronti della NATO, un’alleanza che coinvolge gran parte dei Paesi del Nord America e dell’Europa, firmata per garantire un sistema di sicurezza collettivo fondato sul principio di reciprocità. La NATO sopperisce all’assenza di un contingente militare comune dell’Unione Europea, che pare essere, oggi, priva di idee forti in grado di garantirle uno spazio per agire come attrice protagonista sul piano internazionale, e un eventuale disimpegno statunitense finirebbe per porre fine ad una storica partnership che ricopre metà del globo e che è in grado di condizionare le politiche degli altri Paesi.

L’Ambasciatrice USA presso le Nazioni Unite ha annunciato, inoltre, un futuro disimpegno su uno dei temi oggi più discusso: quello del fenomeno migratorio; tale disciplina necessita, indubbiamente, di una più compatta cooperazione internazionale, coniugando, al suo interno, al fattore giudico-politico, anche quello umanitario e morale. Secondo la Presidenza statunitense, infatti, l’accordo di New York – sottoscritto all’unanimità da tutti i Paesi delle Nazioni Unite e volto a migliorare la gestione di rifugiati e migranti, incrementando le competenze dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati – presenta molteplici elementi che contrastano con le politiche migratorie dell’amministrazione Trump, più protezionistiche e meno inclini ad una collaborazione internazionale.

Fortemente discusso è stato anche l’annunciato ritiro di Trump dall’accordo di Parigi, in tema di lotta al cambiamento climatico. La Presidenza statunitense, infatti, ha definito l’accordo particolarmente svantaggioso per il suo Paese. Seppur il ritiro effettivo degli Stati Uniti non avverrà prima del 2020, Trump ipotizza già di negoziare un nuovo accordo internazionale, che preveda condizioni più favorevoli per gli USA, in linea con la volontà di risollevare l’imprenditoria statunitense e con il già annunciato “make America great again”.

Non meno importante, è stata l’annunciata rottura dell’accordo in tema di nucleare, negoziato nel 2015 tra USA, Iran, Cina, Francia, Germania e Federazione Russa. La Repubblica iraniana, infatti, gode, in questo momento storico, di una particolare posizione di vantaggio: dopo aver sconfitto la presenza dello Stato Islamico all’interno del proprio territorio e aver dimostrato, sul piano internazionale, di essere una delle più solide democrazie del Medio Oriente – pur presentando un sistema ibrido, talvolta connotato da elementi teocratici -, ha assistito all’esuberanza statunitense, con l’appoggio dell’International Atomic Energy Agency, per poi constatare che il destino dell’accordo è stato rimesso nelle mani del Congresso USA, la cui posizione è stata fortemente oscillante e non sempre concorde con le politiche della Presidenza.

L’ondata protezionista di Trump ha coinvolto anche la United Nations Organization for Education, Science and Culture; il 12 ottobre scorso, infatti, gli USA hanno annunciato il loro ritiro dall’UNESCO, a causa di una presunta ostilità che tale organizzazione maturerebbe nei confronti di Israele. La vicinanza allo Stato di Israele era stata già palesata anche dalle nomine che il vertice di Washington aveva conferito a seguito dell’ascesa al potere di Trump ed è stata riconfermata a seguito del riconoscimento di Gerusalemme quale legittima capitale di Israele. Tale linea politica, sebbene fosse stata già messa in luce dalla Presidenza Truman nel 1948 e riconfermata nel 1995, si configura, oggi, secondo le Nazioni Unite, come un’intrusione di uno Stato terzo nei rapporti – già fortemente complessi – tra Israele e Palestina.

Un altro fattore che preoccupa – e non poco – la Presidenza statunitense è il disavanzo commerciale degli Stati Uniti con la Germania e il rapporto con l’Unione Europea tutta: infatti, Trump ritiene che l’Unione stia portando avanti delle misure protezionistiche e, mentre i negoziati sull’accordo transatlantico di libero scambio tra UE e USA subiscono un grave rallentamento, in Europa, la Cancelleria tedesca, indiscussa leader politica dell’UE, ha perso parzialmente il suo potere a seguito dei risultati delle ultime elezioni, che hanno mostrato un rinnovato appoggio ai partiti di estrema destra, minacciando, di fatto, il futuro dell’Europa.

Il destino degli equilibri geopolitici globali è nelle mani di personalità politiche che stanno suscitando non poche perplessità: gli Stati Uniti restano ancora la più grande super potenza del mondo – sia militare sia economica -; tale egemonia, tuttavia, risentirà, soprattutto nel lungo periodo, dell’ascesa al potere della  Repubblica cinese che, con la progettazione delle nuove vie della seta, pare possa assumere un ruolo chiave negli scambi commerciali globali, specialmente a causa delle nuove simpatie che sembrano intercorrere tra Cina e Germania e che, per ovvi motivi, sono viste con ostilità da un the Donald sempre più euroscettico e diffidente.

Adriana Brusca


 

 

 

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