L’occhio del secolo Henri Cartier-Bresson: l’attimo che diventa immortale

Di Martina Costa e Valentina Pizzuto Antinoro – Dopo il grande successo di Steve McCurry, la Galleria d’Arte moderna di Palermo ha aperto ancora una volta le porte a un grande artista della fotografia: Henri Cartier-Bresson. La mostra, curata da Denis Curti, si snoda in 4 diverse sale in cui le stampe vengono suddivise per arie geografiche. Per capire questa scelta, risultano essenziali dei cenni biografici sull’artista. Cartier-Bresson (Chanteloup en Brie 1908 – L’Isle sur la Sorgue 2004), ha infatti vissuto gran parte della sua vita in giro per il mondo: Usa, Messico, Cuba, India, Giappone, Indonesia.

Entrando si è subito accolti dagli scatti che tra i tanti hanno reso celebre l’artista, quelli che ritraggano gli scenari francesi. Cartier-Bresson giunge alla fotografia a 24 anni, quando decide di abbandonare la pittura a causa degli scarsi risultati ottenuti. Con la sua prima Leica, riproduce uno dei suoi scatti più celebri, Gare Saint- Lazare (Parigi, 1932).

Padre indiscusso della street photography, l’ambientazione delle sue fotografie è quasi sempre quella della strada. Molte stampe riprendono infatti scene di vita quotidiana: da un pranzo sulla riva della Senna (Domenica sulla riva della Senna, Francia – 1938) a una bicicletta che veloce scorrazza tra les rues françaises (Hyères, Francia – 1932). Mantenendo lo stesso punto di vista delle persone comuni, riesce allo stesso tempo a trovare squarci di realtà che solo un occhio attento saprebbe cogliere. Come lo sguardo di una passante rivolto a un uomo senza volto, steso a terra, tra le vie di Parigi (La villette di Parigi, Francia- 1929).

Nel 1934 Henri partecipa come fotoreporter a una spedizione etnografica in Sud America che fallisce dopo pochi mesi, ma decide di continuare il viaggio da freelance lavorando per giornali locali, immortalando scene di vita quotidiana che lo hanno reso famoso a New York come art photographer. Negli stessi anni inizia ad approcciarsi al fotogiornalismo sperimentando nuove tecniche di racconto, usando cioè più immagini e meno parole e considerando la sua Leica un ‘block notes’.

Oltre ad essere un abile fotografo, è anche stato un dissidente politico, partecipando alla resistenza francese. Nel 1940 venne arrestato dalle truppe naziste, riuscendo ad evadere al terzo tentativo tre anni dopo. Si racconta che qualche giorno prima di essere fatto prigioniero riuscì a seppellire la sua Leica che, una volta scappato dal campo di concentramento riuscì a recuperare.

Appena terminata la guerra tornerà nei campi di concentramento, precisamente a Dessau, per girare un documentario sul ritorno in patria degli ebrei e dei prigionieri di guerra. Nei primi mesi del dopoguerra, infatti, alcuni campi di concentramento furono usati dagli alleati come sistemazione provvisoria per i sopravvissuti, luogo in cui nell’attesa si svolsero dei “processi” contro i traditori. È proprio in questa occasione che Cartier-Bresson riesce a immortalare un’informatrice della Gestapo accusata e riconosciuta successivamente da una sopravvissuta (Dessau, Germania- 1945); in questo scatto, che sembrerebbe quasi montato ad hoc, l’artista riuscì, con abile maestria, a riprendere un misto di emozioni di una pagina storica indelebile.

Nel 1947 il MoMa di New York annuncia l’allestimento di una mostra postuma dedicata a Cartier-Bresson, credendolo deceduto durante la guerra; con molta ironia l’artista decise di mettersi in contatto con il museo per partecipare alla preparazione della mostra. Nello stesso anno, fonda, insieme ad altri quattro artisti (Robert Capa, David Seymour, William Vandivert e George Rodger), l’agenzia fotografia Magnum Photos, col “desiderio di trascrivere visivamente quello che sta succedendo nel mondo”.

Cartier-Bresson, definito “l’occhio del secolo”, è uno dei fotografi più influenti del Novecento. La sua forma di fotogiornalismo è rivoluzionaria e di forte ispirazione per i suoi tempi. Tra le stampe presenti in mostra ritroviamo la cremazione di Gandhi, scene degli ultimi mesi del Kuomintang, il partito politico cinese, e l’indipendenza dell’Indonesia. Nel 1954 riesce persino a varcare le soglie dell’Urss, fotografando per primo realtà inaccessibili ai più. Sembra quasi che riesca sempre a trovarsi nel posto giusto al momento giusto per immortalare, quello che lui definisce, l’attimo decisivo, cioè «l’attimo che consegna lo scatto all’immortalità».

Cartier-Bresson è un vero maestro della fotografia, tra i più innovatori del suo secolo. Sebbene l’artista non si sia mai espresso in tal senso; Cartier-Bresson affermava anzi di non capire nulla di fotografia ed è anche per questo che affidava agli esperti la stampa delle sue foto. Da subito si noterà che le 140 stampe sono tutte in bianco e nero e che molte di queste hanno nei loro bordi una sottile cornice nera. Questo è proprio un carattere distintivo dell’arte di Cartier-Bresson, accesso sostenitore del negativo intero, che sta quindi a indicare l’originalità della stampa, non ritagliata, che ritrae l’esatta scena che il fotografo ha voluto immortalare. L’artista è interessato a riportare all’osservatore immagini reali e per questo non le modifica e non le ritaglia. Il suo obiettivo è proprio quello di riportare in vita le emozioni che lo circondavano mentre scattava una fotografia, nel cuore dell’osservatore di oggi.

Cartier-Bresson affermava che «per dare un senso al mondo, bisogna sentirsi coinvolti in ciò che si inquadra nel mirino» e lui girava il mondo alla ricerca del momento decisivo da immortalare, quel «momento irripetibile in cui la mente, il cuore e l’occhio sono sulla stessa linea». La fotografia è un modo per trattenere un attimo e la bravura del fotografo risiede nella sua capacità di attendere la circostanza in cui il momento decisivo si rivelerà. In questo contesto la pazienza era un elemento essenziale; occorreva attendere fino a quando la scena non compariva davanti alla macchina fotografica.

Henri spiega la sua tecnica nel libro The Decisive Moment (Steidl Publishers, 1953), definito da Robert Capa “la bibbia per i fotografi”. La capacità del fotografo non sta nel saper immortalare il momento in un solo scatto, ma saperlo scegliere tra tutti gli scatti consecutivi che racchiudono quel momento. Decide di lasciare le sue fotografie prive di modifiche sostanziali; catturando così un attimo spontaneo, che non ricerca l’angolazione migliore o una luce artificiale, ma che riesce a cogliere quella che in quel momento e in quello spazio gli si viene offerta.

Nell’era del selfie ossessivo e della totale distorsione della realtà – che per questa volta chiameremo “fotodistorsione”, intesa proprio come l’alternanza più o meno totale di un soggetto o di un oggetto ritratto in una fotografia – un lavoro del genere è in decisa controtendenza.