L’ideologia dell’Est: cento anni di comunismo

Ottobre 1917. A Pietrogrado, l’odierna San Pietroburgo, le forze rosse guidate da Lev Trockij e Lenin occupano il Palazzo d’Inverno, sede monarchica dei Romanov, la casata reale di Russia, spazzandola via e iniziando la trasformazione del regno di Russia in quella che sarà, nel 1924, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Un processo che, nella carta, seguiva alla lettera ciò che era stato teorizzato cinquanta anni prima dai filosofi Karl Marx e Friedrich Engels: la loro teoria, sviluppata nel celebre saggio Il Capitale, prevedeva la collettivizzazione del potere che veniva ora gestita dal popolo e l’utile diviso in parti uguali, eliminando le differenze sociali e creando uno stato più egualitario.

 Non fu proprio cosi. Il comunismo divenne un affare per pochi e l’eguaglianza si notò solamente per l’incredibile precarietà in cui visse la popolazione russa per tutti gli anni che seguono fino alla dissoluzione dell’URSS nel 1991: il potere, passato da Lenin a Stalin, si trasformò in una crudele dittatura basata sulla forza bellica e sui gulag, i campi di internamento dove venivano trattenuti i prigionieri politici che si opponevano al regime.

 Tuttavia, la forza comunista fu importante per arginare, negli anni della seconda guerra mondiale, le mire espansionistiche della Germania nazista: nel 1941, con l’operazione Barbarossa, Hitler decise di occupare l’Unione Sovietica, attraverso una guerra lampo, venendo meno agli accordi del patto Ribbentrop-Molotov; dopo essersi avvicinato pericolosamente a Mosca, venne respinto dai soldati dell’Armata Rossa che, insieme alle forze anglo-americane nel settore occidentale d’Europa, strinsero a tenaglia i soldati della Wehrmacht fino a Berlino nel 1945, conquistandola e ponendo fine al dominio tedesco e quindi alla guerra in Europa.

 Dopo la guerra, le potenze vincitrici si divisero il mondo in due sfere di influenza: ad Ovest il blocco “capitalista” facente parte del Patto Atlantico, dove si riunirono le nazioni alleate degli Stati Uniti, mentre ad Est tutte quelle nazioni aderenti al Patto di Varsavia, ossia, quelle nazioni sotto l’influenza sovietica. La disparità tra i due blocchi si fece evidente, soprattutto nella Berlino divisa, simbolo della Guerra Fredda: la parte Ovest della città, controllata dagli Alleati, si sviluppò e divenne un centro florido, mentre la parte Est rimase una cittadina mediocre e poco sviluppata.

L’ideologia comunista crollò nel 1991, quando la bandiera rossa venne ammainata dalle cupole del Cremlino e iniziò il processo di indipendenza dei paesi dell’Unione sovietica, divenuta ormai CSI (Comunità degli Stati Indipendenti).

 Nel resto d’Europa, nonostante la forte presenza americana, vissero comunque grandi partiti che si rifacevano all’ideologia comunista, soprattutto in Italia e in Francia, con il Partito Comunista Italiano (voce influente a Mosca) e il Parti communiste Français in Francia. I loro esponenti facevano la spola tra i loro paesi e Mosca, mantenendo, in Italia e Francia, quello strato di moderazione che non li ha mai fatti cadere nel totale gioco americano (addirittura la Francia si smarcò totalmente dai giochi americani quando si trattò del processo di armamento nucleare).

Oggi, del comunismo, rimane ben poco se non qualche stacanovista che ancora crede nella rivoluzione operaia e qualche movimento politico che però non può nemmeno sperare in risultati a doppia cifra percentuale. Oggi il comunismo è visto come quel movimento romantico che ha spinto milioni di cuori a battersi per un ideale utopico, che ha portato alle formazioni di comuni, collettività industriali e spinto milioni di operai in tutto il mondo a recriminare i propri diritti, o più semplicemente, ad alzare il pugno sinistro per ricordare un’epoca che non esiste più.

 Giorgio Gaber in “Qualcuno era Comunista” cantava:

«Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre […] Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo. Perché sentiva la necessità di una morale diversa. Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita. Sì, qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come, più di sé stesso. Era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra, il senso di appartenenza a una razza, che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita. No, niente rimpianti. Forse anche allora molti, avevano aperto le ali, senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici».

Giuseppe Sollami