Il Kurdistan iracheno, tra spinte indipendentiste ed equilibri internazionali

I curdi sono un gruppo etnico di matrice indoeuropea. La popolazione curda, che si aggira intorno ai trenta milioni di persone, costituisce uno dei più numerosi gruppi etnici privi di unità nazionale, nonché la quarta etnia più vasta della zona del Medio Oriente.

I curdi – che, in assenza di un territorio, non hanno mai goduto degli elementi idonei ad essere  riconosciuti come uno Stato – risiedono principalmente in Iran, in Iraq, in Siria, in Turchia e, in percentuale ridotta, in Armenia. Questa zona di territorio transnazionale è frequentemente indicata con l’appellativo “Kurdistan”; tuttavia né la comunità internazionale né gli Stati nazionali coinvolti, hanno mai riconosciuto alcuna forma di sovranità statale ai curdi, i quali hanno rappresentato, storicamente, esclusivamente una minoranza all’interno degli Stati di residenza e, come tale, facile bersaglio di soprusi nazionali e, in taluni casi, di vere e proprie persecuzioni.

Alla base dell’impossibilità di creare e riconoscere lo Stato del Kurdistan, vi è la forte opposizione dei Paesi nel cui territorio si stanzia questa popolazione: la presenza di materie prime – soprattutto il petrolio – in alcune zone, rende evidente la forte presenza di interessi economici in gioco, senza tralasciare la fisiologica ostilità delle Nazioni alla perdita di una parte della loro sovranità, al fine di creare, attraverso una secessione, un nuovo Stato indipendente.

Dal 1991, una peculiare autonomia è stata riconosciuta al Kurdistan iracheno, una regione a nord dell’Iraq, legata al potere di Baghdad da una forma di federalismo. Si tratta del territorio che, dal 25 settembre 2017 in poi, a seguito del referendum indipendentista, è stato oggetto di un acceso dibattito in ambito internazionale; dibattito che ha visto le maggiori potenze mondiali spaccarsi incoerentemente tra interessi contrastanti.

Il referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno, affonda le sue radici su ragioni principalmente sociologiche: in primis, un indiscusso sentimento di appartenenza che lega l’etnia curda e che la distingue dalle altre popolazioni; tale identità popolare, che si è protratta nei secoli, tenta, nell’epoca della moderna democrazia pluralista, di trovare uno spazio per potersi anch’essa affermare, per poter ottenere un riconoscimento, formale e sostanziale, sul piano internazionale.

La vicenda referendaria ha visto il suo protagonista in Masoud Barzani, Presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno, che già nel 2014 aveva tentato di indire un referendum per l’indipendenza di questo territorio; l’avvento dello Stato Islamico, aveva comportato una notevole riduzione dei controlli del governo iracheno sul Kurdistan, permettendo lo sviluppo di molteplici movimenti indipendentisti. Quando lo Stato Islamico è giunto anche nel nord dell’Iraq, il presidente Barzani, per respingere la minaccia terroristica, ha stipulato un compromesso con gli Stati Uniti: questi ultimi, infatti, avrebbero supportato militarmente il Kurdistan, qualora il suo presidente avesse accettato di posticipare il referendum. L’accordo con gli Stati Uniti ha permesso alla regione autonoma di abbattere la presenza degli estremisti islamici nel territorio curdo, facendo, al contempo, acquisire una posizione di preminenza politica in capo al presidente Barzani, che, in carica dal 2005, ha visto più volte rinnovato il suo mandato, con seri dubbi di costituzionalità sulla legittimità dei suoi ultimi governi.

Il 15 settembre scorso, il Parlamento del Kurdistan iracheno ha approvato la proposta di referendum, fissando la data per la consultazione elettorale, come sopra citato, al 25 settembre. La popolazione curda si è espressa in modo compatto, ma non mancano delle spaccature ideologiche: vi sono delle città, infatti, in cui l’appoggio incondizionato al presidente Barzani ha condotto la popolazione curda ad accogliere il referendum con un nuovo slancio indipendentista; in altri centri, invece, dove predomina una politica di opposizione a quella del presidente, è stato registrato un notevole disinteresse sulla vicenda referendaria, dovuto non propriamente alla questione della secessione in sé, ma, piuttosto, alla rivalità maturata contro il governo Barzani. Ancora una volta, appare evidente come dietro il diritto di voto di cui godono i cittadini, vi sia, troppo spesso, un distorto esercizio dello stesso: i risultati delle consultazioni elettorali, infatti, finiscono per ridursi ad un supporto o ad un’opposizione nei confronti di un determinato soggetto politico, scevri dal fungere da utili strumenti per interpretare la volontà popolare su un dato argomento di interesse generale.

Al referendum del 25 settembre, più di cinque milioni di curdi iracheni – pari, orientativamente, al 72,6 per cento degli “aventi diritto di voto” -, hanno espresso la loro posizione: la linea indipendentista ha vinto con una schiacciante maggioranza del 92,7 per cento.

Il leader curdo ha più volte ribadito che l’intento del plebiscito non era quello di giungere ad una dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte del Kurdistan – fine che era stato perseguito, ad esempio, nel recentissimo episodio della Catalogna -, ma, piuttosto, quello di stendere le basi per un dialogo produttivo con Baghdad, affinché fosse possibile giungere ad una separazione consensuale, intesa quale  risultato di procedura di negoziazione democratica. Alcuni autori sostengono che l’obiettivo del referendum sia quello di lanciare un segnale forte, affinché Baghdad torni a versare i fondi economici statali nelle casse regionali; fondi che, nel caso della regione autonoma del Kurdistan, non sono erogati ormai da più di tre anni e che hanno giocato un ruolo cruciale nella percezione della politica irachena in capo al popolo curdo.

Il governo centrale iracheno, tuttavia, a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale – la cui imparzialità appare discutibile a causa dei meccanismi di nomina dei membri della magistratura – ha proclamato l’illegittimità del referendum curdo, rifiutando qualsiasi tentativo di dialogo con la regione. Un’ulteriore misura volta a limitare l’autonomia del Kurdistan, è stata espressa mediante una richiesta di blocco degli aeroporti gestiti dal governo regionale: la limitazione del traffico in entrata e in uscita dei cittadini, è stata giustificata con sommari motivi di sicurezza, ma cela un’evidente volontà di ritorsione del governo centrale che ha, altresì, compiuto un’esercitazione militare congiunta con la Turchia, al confine con il Kurdistan. In risposta, il presidente Barzani ha nuovamente invocato al dialogo costruttivo, invitando il governo di Baghdad a cessare le minacce contro il popolo curdo.

La vicenda referendaria ha posto conflittualità anche con Paesi terzi, primo tra tutti la Turchia. Erdogan, infatti, ha platealmente condannato l’atteggiamento di Barzani e ha preannunciato il blocco degli scambi commerciali con il Kurdistan. A preoccupare il presidente turco, più che la vicenda irachena, è il rischio che la spinta indipendentista dei curdi della regione autonoma giunga fino al suo territorio, e inciti i curdi della Turchia a lottare per l’indipendenza. Erdogan ha, infatti, fatto accenno al “rischio di una guerra etnica e confessionale”, che potrebbe minare la stabilità del Medio Oriente, e ha scongiurato questa possibilità dichiarandosi pronto ad agire con tutti i mezzi in suo possesso, compreso quelli militari. In realtà, nel Kurdistan vi sono oltre 1200 società turche, gli scambi commerciali tra la regione autonoma ed Ankara ammontano a oltre 90 miliardi di dollari e il 4 per cento dell’economia turca dipende, direttamente o indirettamente, dal Kurdistan; dati, questi, che ci permettono di comprendere come sia difficile che il presidente Erdogan possa dar seguito, con i fatti, alle contromisure preannunciate oralmente.

Una posizione intermedia è stata assunta dalla Siria, che ha annunciato la volontà di voler intraprendere un dialogo costruttivo con i curdi siriani, ma ha condannato le modalità attraverso cui si è svolto il referendum in Iraq. Damasco, distrutta dalla guerra dello Stato Islamico, ha perso dominio su molti territori e ha visto i curdi siriani assumere il controllo di una zona determinata della Siria. Non esiste alcun riconoscimento, né sul piano nazionale né sul piano internazionale, di questo nuovo governo; tuttavia, di fatto, i curdi siriani, in questo momento, detengono il controllo di una, seppur piccola, zona di territorio.

Anche gli Stati Uniti hanno assunto pubblicamente una posizione circa l’ammissibilità e l’esito referendario. E’ indubbia la volontà degli USA di insediarsi nuovamente in quel territorio e l’amministrazione Trump, dopo aver ribadito l’illegittimità del referendum, ha sottolineato come la vicenda del Kurdistan iracheno possa minare la stabilità nel Medio Oriente, predisponendo condizioni favorevoli ai terroristi dello Stato Islamico, che hanno saputo ben sfruttare, in passato, le debolezze territoriali dei luoghi in cui hanno operato. Gli Stati Uniti sono inevitabilmente influenzati, inoltre, dalla posizione della Turchia, in quanto storico partner commerciale, membro della NATO e finestra di molti rapporti diplomatici con il Medio Oriente.

Quanto alla Federazione Russa, Mosca non ha mostrato il suo dissenso all’indipendenza del Kurdistan iracheno; un appoggio, anche questo, dovuto principalmente alla presenza di interessi economici e, specificatamente, ad un  giovane accordo commerciale da milioni di dollari, che prevede la costruzione di un nuovo Gasdotto.

Un’aspra posizione di condanna, invece, è arrivata dalle organizzazioni internazionali. Le Nazioni Unite e l’Unione Europea, infatti, hanno invitato gli Stati al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e hanno rifiutato qualsiasi forma di indipendentismo, nonostante parte della dottrina internazionalistica, già da tempo, abbia classificato il principio di autodeterminazione dei popoli – che potrebbe, parzialmente, essere applicato anche in questa vicenda – come un vero e proprio diritto.

Accanto alla Russia, l’unico Stato che ha manifestato il suo appoggio al popolo del Kurdistan iracheno è Israele, che dagli anni ’60 ha coltivato ottimi contatti con i curdi: gli israeliani, infatti, non hanno tardato ad affermare che, nell’ambito di una potenziale conflittualità tra Israele e il mondo arabo, il Kurdistan possa fungere da mediatore, in grado di controbilanciare gli interessi delle potenze in campo.

Mentre le grandi Nazioni assumono posizioni di convenienza nazionalistica in relazione all’avvenuto referendum, il partito democratico del Kurdistan – che vede al suo vertice apicale il presidente Barzani – guadagna un supporto popolare sempre crescente e si prepara alle prossime elezioni in un clima sì di tensione, ma politicamente favorevole al suo leader carismatico, considerato ormai una sorta di eroe nazionale. Barzani, infatti, ha indetto le elezioni per il prossimo 1 novembre e, nonostante abbia dichiarato di non voler avanzare la sua candidatura per la carica di presidente, è legittimo ritenere che, dopo aver detenuto il potere in maniera continuativa ed ininterrotta dal 2005, approfitti della visibilità acquisita tramite il referendum, per assumere nuovamente un ruolo di preminenza politica nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, in cui, tra tutti gli interessi in gioco, sembra non ci si stia preoccupando della possibile deriva autoritaria  incontro alla quale rischiano di imbattersi i cittadini.

Adriana Brusca