Usa, guerra insensata contro le statue: l’ultima frontiera della lotta al razzismo

Di Daniele Monteleone – Negli Stati Uniti è iniziata da qualche mese una battaglia senza nemico che – come si intuisce – ha dell’incredibile. La popolazione, un po’ ovunque, ha cominciato a scagliarsi contro quei simboli americani che hanno schiavizzato e fatto uccidere migliaia di persone tra connazionali, afroamericani e nativi americani. Un dettaglio: si tratta di statue, monumenti, targhe che, fino a prova contraria, non hanno mai fatto del male a nessuno. Generali confederati, sudisti, schiavisti, protagonisti della Guerra di Secessione, dopo secoli, sono tornati a sentire il profumo dello scontro, ma senza poter muovere un dito. Cristoforo Colombo è solo l’ultima vittima delle decapitazioni anti-razziste, la prima del mese di settembre.

L’episodio di Charlottesville, in cui hanno perso la vita tre persone, ha riacceso i riflettori sul movimento del suprematismo bianco, per la verità mai sparito e recentemente rialzatosi in piedi, forse incoraggiato da un presidente non troppo ostile nei confronti dell’alt-right. La risposta di Donald Trump all’indomani dei fatti violenti in Virginia rende l’idea della tolleranza e del tentativo di ridimensionamento dell’agitazione suprematista: «I’m not putting anybody on a moral plane […] You had people that were very fine people on both sides. Not all those people were neo-Nazis, not all those people were white supremacists».

Proprio il “favore” del presidente e l’escalation di violenza ha portato a una risposta della cittadinanza estesa e diretta a ogni richiamo o ricordo, non solo dei confederati, ma di tutto l’odio e della divisione razziale che ha insanguinato la storia recente e meno recente della democrazia a stelle e strisce. Sono state settimane di vandalismo su tantissime statue, busti e monumenti commemorativi – di personaggi protagonisti di eccidi o di incitamento alla persecuzione e alla segregazione – che hanno subito danni, imbrattamenti e coperture.

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Credit: Lars Hagberg

Una reazione forse legittima, un segnale ai più giovani che alcune persone non meritano feste e celebrazioni. Ma non è cancellando delle opere che si annienta l’odio e il razzismo. Non è oscurando la memoria che si evidenziano gli errori del passato (tutto il contrario!). Le feste possono essere ignorate, le giornate dedicate possono perdere significato nel tempo, le statue possono sostare come utile riparo dal sole per tutti, senza discriminazioni, forse questo il “contrappasso” più apprezzabile. Saranno a centinaia – forse migliaia – le statue che ricordano le controverse figure della guerra civile, obiettivi per più livelli: dal cittadino medio all’amministratore, fino al sindaco.

A New York il sindaco Bill De Blasio ha inserito il monumento a Colombo nell’elenco di quelli da abbattere: ha dichiarato che «è discriminatorio». Intanto a Los Angeles veniva abolito il Columbus Day. Nonostante si tratti semplicemente di una scriteriata campagna politica atta a non risolvere nulla tranne che fare spazio nei giardini pubblici, sono tanti i luoghi dove sono già state abbattute le statue colpevoli della memoria immobile. È un agosto distruttivo quello che è appena finito: ad Annapolis, nel Maryland, la statua di Roger Taney, un giudice del XIX secolo che negò i diritti a un uomo in quanto schiavo, è stata abbattuta dal suo posto davanti alla Camera di Stato su richiesta del governatore Larry Hogan; l’università di Austin in Texas ha fatto rimuovere le statue di due generali confederati (e possessori di schiavi) Robert Edward Lee e Albert Sidney Johnston e di un membro del governo confederato John Reagan; a Durham nel North Carolina alcuni protestanti hanno abbattuto una statua di un soldato confederato davanti al tribunale; “Old Joe”, il monumento in memoria dei caduti confederati nel centro di Gainesville in Florida, è stato abbattuto dopo 113 anni di permanenza e pacifica convivenza; a Jacksonville il presidente del consiglio comunale, Anna Lopez Brosche, ha proposto che tutti i monumenti confederati vengano rimossi dalla città e trasferiti in un museo. E tantissimi altri casi analoghi in diversi stati americani.

Tutte le proposte o le azioni sono state motivate dalla volontà di rendere i parchi e le città «rispettosi dell’uguaglianza e della libertà» perché in molti non sentono necessario celebrare alcune personalità del passato che per la propria storia “sporcano” i veri valori di una società contemporanea e democratica come quella statunitense. Eppure più di un dubbio rimane: e se bastasse studiare la storia di tutti questi giganti di pietra e riflettere sul perché di un monumento celebrativo in un dato momento storico? E se fossero necessari semplicemente nuovi simboli e nuovi monumenti affiancati a quelli eretti da più di un secolo? Tutto questo cieco antistoricismo sembra essere l’antidoto all’odio e al razzismo in America, terra di esaltazione del simbolo e che anche stavolta non si smentisce.

Foto in copertina di David Carson


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