I limiti economici dell’Ue: l’assenza di «una» politica fiscale

Di Francesco Paolo Marco Leti – Uno dei maggiori limiti europei è sempre stato rappresentato dall’assenza di una reale leva di politica fiscale. Questa assenza è resa ancor più evidente se la raffrontiamo alla profondità dell’integrazione raggiunta in campo monetario, dove la presenza della BCE, evidenzia una struttura quasi compiutamente federale. Quello della politica fiscale è un problema che accompagna la costruzione europea fin dall’inizio e rappresenta uno dei settori nel quale la gelosia della sovranità statale è maggiore.

Com’è evidente la tassazione e la gestione del gettito fiscale sono una delle prerogative tipiche dello Stato e una sua cessione a un organo sovranazionale è materia “incandescente”. Non è quindi un caso che il bilancio dell’Unione sia parecchio “striminzito” e rappresenti circa appena l’1% del Pil europeo. Questo bilancio è poi utilizzato per sostenere le strutture burocratiche europee e per finanziare i vari interventi europei attraverso i fondi strutturali. La cifra in sé, però, non sarebbe eccessivamente negativa se l’integrazione economica non fosse diventata così profonda, tale da rendere necessario un riequilibrio federale degli shock asimmetrici all’interno dell’eurozona.

Per essere più chiari: in uno Stato federale ben definito, quando uno dei paesi membri è in crescita e un altro versa in crisi, il bilancio federale drena il maggiore gettito creato dal primo per alleviare le sofferenze del secondo. Gli strumenti utilizzati per farlo sono diversi ed il primo è quello legato alla presenza delle imposte federali che si alleggeriscono sullo Stato in crisi e diventano più corpose per lo Stato in crescita. Ci sono però anche altri strumenti e fra questi quelli che comunemente vengono chiamati “stabilizzatori automatici”: sussidi di disoccupazione, sostegni al reddito, social card e affini. Naturalmente lo Stato federale, per trainare fuori dalla crisi il paese in recessione, può mettere in campo ulteriori misure, che possono essere definite straordinarie. Infatti, potrebbe ad esempio creare una serie d’investimenti in infrastrutture (fisiche o immateriali) o potrebbe mettere in campo delle risorse per la trasformazione industriale del paese in recessione.

Le possibilità sono tante e potrebbero anche essere usate contemporaneamente. L’osservazione che un lettore attento potrebbe fare a questo punto è perché queste misure dovrebbero essere prese a livello federale e non a livello di stato membro? La risposta è abbastanza semplice: lo stato federale potrebbe utilizzare le maggiori risorse che vengono dalle aree del paese in espansione per sostenere quelle in recessione senza fare deficit.

Al contrario, invece, uno Stato membro in recessione per mettere in campo queste misure si troverebbe a creare in primo luogo deficit di bilancio che poi si andrebbe a consolidare nel debito pubblico del paese, costringendolo in un futuro più o meno prossimo a manovre correttive per consolidare il bilancio. La risposta federale sarebbe quindi più efficiente e meno gravosa per uno Stato già in crisi.

La letteratura americana dimostra come lo Stato federale assorba, con risorse proprie, circa il 40% degli shock interni contro l’1% europeo e questo mette in evidenza come, al fine di fare una seria politica fiscale, servono delle risorse adeguate. Tutto ciò riporta alle dimensioni “ristrette” del bilancio europeo. Gli Stati Uniti e altri paesi federali non drenano meno del 33% del Pil del proprio paese mettendo in questo modo in campo una seria diga nei confronti degli shock.

L’Unione col suo bilancio dell’1%, non ha neanche lontanamente le risorse adeguate per contrastare le crisi economiche all’interno dell’area. Il bilancio è talmente povero che per finanziare delle misure anticicliche portate avanti dalla Commissione, il cosiddetto “piano Juncker”, si sono utilizzate forme di finanziamento fondate sull’emissione di obbligazioni e sul reperimento di risorse sul mercato attraverso l’indebitamento con una leva molto elevata. Uno Stato federale non dovrebbe neanche prendere in considerazione questa possibilità.

Per risolvere le difficoltà europee e per non esacerbare l’acredine fra e dentro gli Stati, che potrebbe provocare la dissoluzione della costruzione europea, è necessario superare questo deficit, fare questo ulteriore salto, anche se la gelosia degli Stati per le proprie prerogative lo rende, ad oggi, estremamente complicato.


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