L’attentato a Rocco Chinnici: l’intuito eccezionale strappato all’Italia della legalità

Un’autobomba esplodeva in via Federico Pipitone, nella mattina del 29 luglio 1983, con l’obiettivo di eliminare il giudice Rocco Chinnici. Insieme a lui, muoiono anche gli agenti presenti davanti l’abitazione del magistrato, il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta, e il portinaio Stefano Li Sacchi, tutti investiti in pieno dalla deflagrazione dei 75kg di esplosivo dentro la 126 verde parcheggiata davanti il portone.

In quest’occasione l’orrore ha coperto ogni cosa, ma le intuizioni e la perspicacia del giudice che ideò il pool antimafia – divenendone di fatto il “pioniere” – rimangono ancora oggi nella memoria collettiva, in particolar modo in quella dei colleghi che hanno collaborato nella lotta a Cosa Nostra.

Stiamo attraversando due decenni: la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta. Un periodo in cui comincia a consolidarsi la lotta al fenomeno mafioso attraverso l’azione di grandi uomini delle istituzioni che portano avanti il valore della legalità. Sono anni in cui alcuni nomi – forse allora poco acclamati e non ancora riconosciuti – come Boris Giuliano, Gaetano Costa, Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Carlo Alberto Dalla Chiesa (e moltissimi altri) figurano in prima linea nella lotta contro la criminalità organizzata, sempre meno agricola e sempre più sistema.

Proprio l’immissione della mafia nei grandi giochi economici rappresenta il cambiamento epocale sottovalutato in quegli anni, in virtù di una visione offuscata di una mafia morente che continua a trafficare bestiame e resta legata alla proprietà terriera. Una mafia meno contadina e più borghese, nel giro di pochi anni, eliminerà molti dei suoi nemici, da uomini delle Istituzioni a giornalisti impegnati contro il malaffare mafioso.

Quella mattina di fine luglio dell’83 il capo dell’ufficio istruzione di Palermo, Rocco Chinnici, sta uscendo dal condominio in cui abita. Sono le 8 del mattino circa, e la città è avvolta da una coltre di calore estivo. Poi lo scoppio, mostruoso. La mafia colpisce nel modo più spettacolare e tremendo, cancellando la vita del magistrato e degli altri tre uomini coinvolti, innocenti e colpevoli di stare vicini a un onesto cittadino.

Già alla fine degli anni Settanta Chinnici aveva studiato i collegamenti della mafia con l’alta finanza e il mondo dell’imprenditoria che conta. Di lui scrive Paolo Borsellino: «Le dimensioni gigantesche della organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltreoceano e con quelle similari di altre regioni d’Italia, le peculiarità del rapporto mafia-politica, la droga ed i suoi effetti devastanti, l’inadeguatezza della legislazione: c’è già tutto negli scritti di Chinnici».

Il magistrato di Misilmeri può essere considerato per molti aspetti il precursore della lotta antimafia portata avanti poi da quel pool antimafia – e successivamente dalla squadra in cui figuravano Falcone e Borsellino – che fu proprio lui a creare con la collaborazione e lo scambio stretto di informazioni all’interno di un selezionato gruppo di giudici.

Fu tra i primi a capire che era necessario ripercorrere i grandi delitti compiuti dalla mafia per costruire l’intero schema del fenomeno mafioso. Era inoltre convinto che un’azione congiunta tra diverse componenti dello Stato avrebbe potuto destabilizzare sensibilmente la criminalità organizzata. Secondo Chinnici infatti “solo un intervento globale dello Stato, nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative e politiche” è capace di sradicare la malapianta. In anni di indiscriminata contiguità fra “guardie e ladri”, il magistrato aveva le idee chiarissime: la mafia voleva giocare a fare la politica e l’avrebbe fatto con la violenza. Non bastano dunque i mezzi ordinari, serve di più.

La mafia non agisce sempre da sola. Non è un mito lontano ed esclusivamente meridionale. La mafia, nel caso di Chinnici come in altri e successivi, ha avuto bisogno di input “esterni”, di interessi ampi e di natura economica che coinvolgono il piano politico-istituzionale. Scrive il magistrato Nino Di Matteo: «Una disamina complessiva di quanto è emerso dai processi lascia intravedere dietro ogni omicidio eccellente una convergenza di interessi mafiosi e di altri poteri, di volta in volta politico-istituzionali, imprenditoriali o finanziari. Tale convergenza si è manifestata con modalità differenti».

Proprio Nino Di Matteo nel 1996 si è occupato dell’indagine relativa all’attentato contro Chinnici, e a tal proposito rivelerà successivamente: «Le parole di Brusca e i numerosi riscontri emersi nel processo non lasciano spazio a interpretazioni: questa volta, Cosa Nostra aveva agito su input di altri.

A dare il via era stato un vero e proprio potentato economico-politico, costituito da soggetti la cui autorevolezza criminale derivava dall’inserimento in un circuito esterno all’organizzazione mafiosa». Sarà solamente il 24 giugno del 2002 che la Corte d’appello di Caltanissetta confermerà le 16 condanne (di cui 12 ergastoli) per alcuni fra i più importanti affiliati di Cosa Nostra. Ma la lotta deve continuare, nel ricordo e nel nome di straordinari “luminari della legalità” come Rocco Chinnici.

«La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza». [Rocco Chinnici]


Foto in copertina: Rocco Chinnici insieme a Giovanni Falcone e Ninni Cassarà © Franco Zecchin

 

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