Date alla vita quello che è della vita: il diritto di morire in pace

Di Daniele Monteleone – Dopo aver sollecitato persino il presidente della Repubblica Sergio Mattarella affinché sbloccasse l’ennesimo empasse all’interno del nostro Parlamento per il prosieguo dei lavori su una legge per l’eutanasia, Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo, ha cessato la sua esistenza in una clinica in Svizzera in assenza di risposte dallo Stato italiano. Esclusa ogni valutazione morale, superflua ai fini di una corretta osservazione dei fatti, ci si chiede quanto ancora dovremo aspettare per colmare un vuoto legislativo di cui si chiede – silenziosamente – l’attenzione delle istituzioni.

Era il 13 giugno del 2014 quando Antoniani ha avuto un brutto incidente automobilistico. Dopo questo evento la sua vita sarebbe radicalmente cambiata. Il forte impatto gli ha causato gravi danni al midollo spinale e ad alcune vertebre e – conseguenza principale – lo ha reso completamente paralizzato e cieco. Da quel momento si sono tentate cure sperimentali, varie forme di riabilitazione tra cui anche meditazione e agopuntura. Ci si è resi conto che la situazione non sarebbe cambiata verso un miglioramento delle condizioni. Fabiano si trovava all’interno di una problematica che non poteva essere risolta con le attuali conoscenze medico-scientifiche in possesso dell’umanità. Il quarantenne Fabo decide così che terminerà la propria vita consapevolmente.

La vita di Fabiano era aggrappata alla nutrizione e alla respirazione artificiale, scandita da una comunicazione assai stentata e nel buio totale della cecità, assistito costantemente dalle persone a lui più care, in primis la propria fidanzata. A quasi tre anni dall’inizio del calvario di Fabo non è sostanzialmente cambiato nulla dal punto di vista della discussione politica e dell’azione legislativa. Era il 2009 quando si riaccese il dibattito pubblico per il caso Englaro – e a sua volta, distante altri tre anni dal caso Welby – sulla necessità di una legge che regolasse il fine vita e la validità del testamento biologico in modo da garantire una certezza giuridica che non condannasse di “istigazione al suicidio” ogni complice che aiuta un malato a concludere la propria vita.

Il suicidio non è un reato. La decisione sulla propria vita – o meglio, sulla conclusione di questa – potrebbe comunque avvenire in qualunque momento e non ci sarebbe giustizia che possa arrestare un “colpevole di suicidio”. Proprio quando invece esistono situazioni di particolare gravità, in cui sussiste una motivazione razionale e comprensibile ma che è bloccata dall’impossibilità materiale del diretto interessato, ecco che subentra il sostegno a priori della vita, bene irrinunciabile e battito cardiaco che diventa inarrestabile. Come sia ridotto il corpo che racchiude quel cuore – e quella mente soprattutto – non è interesse della legge italiana (né delle Camere).

La discussione nelle sedi istituzionali opportune è continuata a slittare in questi ultimi dieci anni, e non stupisce leggere sui giornali l’ennesimo caso eclatante di una richiesta – andata incontro a una delusione – allo Stato italiano o ad altre cariche di grande importanza. Un caso uscito fuori per un’altra ragione molto semplice: la possibilità economica di compiere un viaggio all’estero e compiere il suicidio assistito in una clinica specializzata che offre questo servizio. Si tratta di una voce, quella di Fabiano, in mezzo ad altre migliaia che non arrivano a ottenere neanche mezza riga nel giornale locale.

Una legge sull’eutanasia non è rimandabile perché riguarda l’attualità delle cose da molto tempo e come per ogni buon operato legislativo, il complesso normativo si adegua alla società che si vuole regolare nel migliore dei modi. Il diritto a terminare la propria vita di sofferenze personali e di chi sta intorno, è uno di questi modi. La morte è un fatto tremendo, non lo si nega dando il via libera al permesso di uccidersi. La morte è però anche un fatto personale, un conto al quale in certe situazioni si vuole arrivare sereni e consci di poterlo fare senza rendere colpevole nessun altro.


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