Le Pen, un velo sulle accuse di frode fiscale

È balzata ai vertici della cronaca la notizia del rifiuto della leader del Front National, Marine Le Pen, di indossare il velo durante un incontro ufficiale del 21 febbraio in Libano. L’accaduto stronca sul nascere il colloquio e lo fa tra le solite polemiche occidentali sugli usi e i costumi. Meno chiacchierata è stata la visita, tutt’altro che di cortesia, della polizia francese presso gli uffici del suo partito nella serata di lunedì. Le Pen è infatti accusata di utilizzo improprio dei fondi europei per il pagamento della guardia del corpo e di una sua assistente parigina.

Andando per ordine e partendo dal fatto più recente. La candidata alla presidenza francese non ha voluto indossare il velo durante il colloquio con il Gran Muftì Abdellatif Deriane, ragion per cui il vertice è immediatamente saltato. Lo sceicco Deriane è una personalità centrale per potere e prestigio nella comunità musulmana sunnita del Libano, paese dove esiste una eterogenea popolazione di sunniti, sciiti e cristiani in quantità più o meno uguali. Sarebbe stato uno dei primi incontri importanti della leader francese con un uomo di “comando” in vista delle elezioni francesi.

Arrivata sui giornali internazionali per questa vicenda, Marine Le Pen ha dichiarato: “Avevo informato in anticipo che non avrei indossato il velo e poiché la visita non è stata annullata, ho creduto avessero accettato la cosa”. Ma al suo arrivo a Dar al-Fatwa, è stato chiesto di indossare un velo provocando la cancellazione dell’incontro. Per la verità la questione non è così scandalosa se consideriamo i precedenti di donne di potere che non hanno accettato di adottare l’abbigliamento locale. La stessa Le Pen durante una visita nel 2015 in cui era stata ricevuta dall’imam di Al-Azhar al Cairo, un’autorità mondiale della comunità musulmana, non aveva dovuto indossare il velo.

All’orgoglioso no della politicante francese a un caso di “imposizione culturale” – come la definiscono i suoi – è scomparsa dall’attenzione mediatica (quantomeno italiana) l’irruzione negli uffici del Front National, collegata all’indagine in corso iniziata nel mese di dicembre 2016, da parte dell’ufficio europeo antifrode (Olaf) che chiede a Le Pen di restituire in totale 340mila euro usati – in maniera impropria secondo l’accusa – per pagare i propri dipendenti. In quanto parlamentare europea ha beneficiato di somme di denaro che dovevano servire specificatamente per lo svolgimento delle proprie funzioni. Ma pare non essere stato così.

Gli investigatori di Bruxelles sostengono che Le Pen abbia pagato la sua guardia del corpo, Thierry Légier, più di 41mila euro tra ottobre e dicembre 2011, registrandolo falsamente come un assistente parlamentare. A questo si aggiunge l’irregolarità collegata al pagamento di 298mila euro tra il dicembre 2010 e 2016 della sua assistente Catherine Griset con sede a Parigi. Per qualificarsi come assistente parlamentare, la persona deve risultare fisicamente presente – in ambito lavorativo – in una delle tre sedi del Parlamento europeo (Bruxelles, Strasburgo o Lussemburgo) e residente vicino al luogo fisico di lavoro. La leader del Front National si difende e sostiene che l’inchiesta sia un tentativo di rovinare la sua campagna elettorale e precisamente che si tratti del tentativo di “turbare il regolare svolgimento della campagna presidenziale e affondare Marine Le Pen in questo momento in cui la sua campagna sta facendo passi da gigante in vista del voto”.

La faccenda è molto grave se pensiamo che il paese per cui si sta giocando la partita presidenziale è la potente e influente Francia, una delle colonne portanti dell’Unione Europea. Uno scandalo – dopo quello che ha travolto François Fillon, un altro dei candidati alle presidenziali – che passa decisamente in sordina nonostante l’importanza della personalità che è attualmente protagonista di un’indagine di un corpo investigativo dell’Unione Europea.

Daniele Monteleone