Lettera a Giovanni Lo Porto

Il 15 gennaio 2015 Giovanni Lo Porto rimane ucciso durante l’attacco di un drone statunitense presso un obiettivo strategico dove era tenuto in ostaggio da esponenti di al Qaeda, al confine tra Afghanistan e Pakistan.


Caro Giancarlo – come ti chiamavano gli amici – ti scrivo in una fredda sera di gennaio. Mi presento, non penso tu possa conoscermi: sono Martina, vivo a Palermo e ti scrivo a nome di questo mondo per chiederti scusa. Da qualche giorno continuo a guardare tue foto e il volto mi sembra più che mai familiare, non so perché. Forse perché incarni il volto di un fratello mancato, il volto di un uomo che ha fatto della sua vita una missione, il volto di una persona che vorresti incontrare in un momento di bisogno.

Una vita ai margini la tua, ai margini di una società dimentica da tutti tranne che da te e da tutte quelle persone che vivono all’insegna del bene e del prossimo.

Hai vissuto la tua adolescenza in una borgata di Palermo per poi completare i tuoi studi alla Metropolitan University di Londra. Esperto di cooperazione internazionale, hai svolto operazioni umanitarie con diverse Ong, prima alla Croce rossa, poi al COOPI, al Cesvi e infine alla Welthungerhilfe, l’organizzazione non governativa per la quale ti trovavi in Pakistan.

Per anni ti sei impegnato nel sociale, in un sociale che ti ha portato lontano da casa: dopo Haiti e l’Africa, avevi svelato il tuo grande amore per il Pakistan, in cui sei tornato per prestare assistenza alle popolazioni della regione di Multan, nella provincia centro-occidentale del Punjab, gravemente colpita da un terremoto.

Insieme a Bernd Mühlenbeck, collega tedesco della Ong, sei stato rapito nel gennaio del 2012 da un commando di jihadisti. Bernd è stato rilasciato a ottobre, qualche mese prima della tua morte, e questo aveva fatto ben sperare la tua famiglia di poterti presto riabbracciare.

Nei tre anni di sequestro eri stato più volte spostato, da ultimo in un rifugio di jihadisti situato al confine tra Pakistan e Afghanistan, zona che proprio in tale periodo era stata più volte bombardata da droni pilotati dal Counterterrorism Center della Cia (organizzazione del governo degli Stati Unit).

Ti scrivo oggi perché proprio il 15 gennaio venivi “accidentalmente” ammazzato nel compound in cui eri prigioniero insieme all’americano Warren Weinstein da un drone statunitense nel corso di una missione segreta antiterroristica.

Quattro mesi di silenzio precedono la notizia della tua morte; la comunicazione arriva infatti il 23 aprile. In una conferenza stampa il Presidente americano Obama dichiara: «A nome degli Stati Uniti chiedo scusa a tutte le famiglie coinvolte. Come presidente e comandante in capo mi assumo la responsabilità di tutte le operazioni antiterrorismo, compresa questa».

In questa occasione il Presidente promette, oltre a un risarcimento economico per le famiglie, di rendere pubblici i fascicoli che riguardano quella missione. La donazione è arrivata a settembre del 2016, circa un milione e 158 mila euro, non tanto un risarcimento con valore giuridico quanto una “Donazione in memoria del Sig. Giovanni Lo Porto“.

Circa la verità sull’accaduto, questa, a distanza di due anni, stenta ad arrivare. Diverse sono le domande che tormentano la tua famiglia. Ci si chiede come sia possibile che la CIA presente sul posto e le innumerevoli tecnologie messe in uso per la missione non siano state in grado di rilevare preventivamente la vostra presenza nei compound.

La tua famiglia, avvisata la stessa mattina, precipita in un vortice di incredulità e dolore. Soltanto a settembre arriva la salma a Palermo, dove vengono celebrati i funerali. A questi partecipano il sindaco palermitano Orlando e qualche membro della giunta. Nessun rappresentante regionale o nazionale, niente tv o funerali di Stato. «Nessun rappresentante di alto livello ha partecipato al funerale e non hanno mai cercato la verità su quanto accaduto», queste le parole di rabbia di Daniele, tuo fratello.

Caro Giancarlo, muori a 37 anni. Non per mano dei tuoi sequestratori o per una malattia. Muori per mezzo di un aereo teleguidato; un danno collaterale, non preventivato all’interno della guerra dei droni. La politica dei droni, i droni killer, ultimamente adottata dall’amministrazione americana nella lotta globale al terrorismo, ha reso gli attacchi impersonali.

Con i velivoli a pilotaggio remoto si attacca da lontano, l’obiettivo da colpire resta visibile in uno schermo e le vittime collaterali un errore lodevole alla causa. Queste operazioni di signature strike, che dovrebbero permettere di colpire soltanto gli obiettivi sensibili, hanno causato negli anni centinaia di vittime; per nessuna di queste pare sia mai stata fatta una conferenza pubblica per scusarsi con le famiglie. Eppure il Pakistan e l’Afghanistan hanno accumulato tanti civili, morti collaterali della drone war.

Oggi tua madre mi chiede perché intorno a questa tua morte e ancor di più, intorno alla tua vita, ci sia stato e vi è ancora questo silenzio. Se ogni vittima va rispettata e il suo ricordo onorato, ci si chiede come sia possibile la poca o nulla pressione dell’Italia nei confronti dei responsabili dell’omicidio al fine di svelare la verità sull’accaduto.

E allora forse basta un risarcimento per ricoprire una verità mai effettivamente rivelata, per dimenticare un nostro concittadino, lodevole per aver fatto della sua vita un esempio di umanità. Nessuna campagna per chiedere “Verità per Giovanni Lo Porto” morto ammazzato dalla nostra indifferenza.

Persino durante la comunicazione fatta dall’allora ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, l’aula della Camera era quasi deserta. Forse questa è la dimostrazione che non tutte le vittime hanno lo stesso peso o, per meglio dire, non tutti gli assassini ricoprono la stessa responsabilità.

Forse che la decennale amicizia con i cari alleati a stelle e strisce ha permesso di soffocare la rabbia e le urla in un mantello di silenzio. Forse che è più facile generare rabbia quando ad uccidere sono dei terroristi musulmani urlanti Allah Akbar e non i promotori della democrazia. Forse che è bene fare silenzio su una politica, quella dei droni, che vede l’Italia e in particolare la Sicilia (con Sigonella) protagoniste per eccellenza.

Perhaps, perhaps, perhaps. Sto cercando di ricostruire la tua storia tramite articoli, post e foto che trovo su internet. Non so, ma mi pare di conoscerti da sempre. Ho visto una foto postata da un tuo amico di un capodanno di qualche anno fa. Non so ma mi sei sembrato un po’ fuori luogo. Come se il tuo corpo fosse qui ma la tua mente in qualche altra parte del mondo. Una sensazione di estraneità, come se la tua terra non ti appartenesse più. Come se tu fossi diventato figlio del mondo e la tua casa è ovunque ci sia bisogno di aiuto.

Le parole di sofferenza di tua mamma, Giusy, non si arrestano. Da quelle parole trapela un amore profondo che neppure questa morte potrà dissolvere. In un post si chiede perché proprio tu che facevi del bene sia stato ucciso. Come potersi dare una risposta convincente. Di certo, se la fugacità della vita insegna a lasciare un segno su questa terra per le future generazioni, tu l’hai lasciato alle tante persone che hai conosciuto e aiutato.

Resterai in questo presente, passato e futuro. Hai dedicato la tua vita e le tue abilità a chi ne aveva più bisogno; hai fatto della tua vita una missione, diffondendo solidarietà e pace.

Leggo di una parabola da te coniata. Così scrivi: «Mi sembra che davvero gli uccelli stanno perdendo la bussola. Vi racconto:  Sono uscito con la macchina per andare a fare un po’ di spesa, andavo piano, e come sempre sulla strada c’erano dei piccioni. Tu cosa pensi: fra poco volano e si scansano dalla strada… dopotutto hanno fatto sempre così. E invece no, si sono rincoglioniti, non si spostano più, infatti uno è ancora là rimasto stecchito dal mio paraurti. Dopotutto non c’è da dargli torto, stiamo assistendo all’imbecilizzazione di massa intorno a noi, intorno a me, non c’è da stupirsi che anche gli animali ne risentano. Dopotutto non penso che il loro habitat naturale sia una strada di asfalto con auto che sfrecciano da tutti i lati. Ho paura che un giorno il piccione possa essere io, rincoglionito da questa società che mi schiaccerà senza pensarci due volte…. Ecco perché voglio prevenire che questo accada».

Questa profezia, così drammaticamente veritiera, mette i brividi. E allora spero di farmi io stessa carne della tua bontà, e insieme a me tutti quelli che trarranno dalla tua vita un esempio di umanità pura. Spero di conoscere un giorno la speranza che diffondevi dai tuoi occhi.

Caro Giancarlo, questa non vuole essere una lettera di cordoglio o un elogio funebre. Scrivo questa lettera per chiederti scusa a nome di questo mondo indifferente. E scrivo, tramite la tua storia, anche a questo mondo indifferente per ricordare a tutti che l’umanità esiste ancora e che è tuttora possibile essere solidali con i propri fratelli nel mondo. Ricordare al mondo che vale davvero la pena «restare umani». Che dici Gianca’, ci proviamo?

Con affetto e stima