Vent’anni con l’euro, tra storia e prospettive

Sono passati oltre vent’anni dal varo e dalla nascita della moneta unica. Fra alti e bassi, un percorso in continua evoluzione.


La moneta unica nacque il primo gennaio del 2002, venti anni fa, dopo una lunga gestazione. In effetti, la decisione di procedere lungo la traiettoria che avrebbe portato alla nascita dell’euro era stata presa col Trattato di Maastricht del 1992, nel quale erano definiti i passaggi che avrebbero poi concretizzato il progetto monetario europeo. Se questi trent’anni, dal 1992 a oggi, sono quelli nei quali la decisione sulla moneta unica era stata, per grandi linee, presa, ancora più antica è la sua gestazione, la cui data la si potrebbe fissare nel 1971. Ci si riferisce, infatti, al periodo del crollo del sistema dei cambi fissi che erano stati stabiliti a Bretton Woods e che avevano guidato l’economia mondiale nel post dopoguerra.

Proprio la fine di questo sistema, in cui l’oro era ancorato al dollaro, comportò l’inizio della fluttuazione delle valute fra di loro, comprese quelle dei Paesi europei, allora parte della Comunità Economica Europea (CEE). Le continue oscillazioni hanno comportato una serie di problemi di natura primariamente commerciale, all’interno di un’area che prevedeva una forte integrazione con l’obiettivo, di natura squisitamente politica, di evitare nuovi conflitti in Europa. 

Per superare la fluttuazione delle valute furono elaborati diversi approcci nel corso del tempo: il primo fu il “Serpente Monetario” che vide la luce nel 1972 e che crollò del tutto sotto i colpi dello Shock Petrolifero tra il 1973-1974. Proprio in questi anni, il sistema fu abbandonato prima dall’Italia e poi dalla Francia, mentre Regno Unito e Irlanda ne uscirono immediatamente, già nel 1972. Il “Serpente Monetario” rimase in piedi soltanto per i Paesi che sarebbero stati poi definiti come area del Marco (Germania, Paesi Bassi, Belgio e Danimarca). 

Il secondo approccio fu il Sistema Monetario Europeo (SME), fondato su una fluttuazione limitata delle valute dei partecipanti nei confronti della valuta di conto fittizia ECU, che sopravvisse a diversi shock, anche modificando notevolmente i margini di fluttuazione fra le valute, fino alla nascita della moneta unica. 

Insieme all’evoluzione politica fra gli Stati, cresceva anche il dibattito accademico e fra gli economisti. Alla base vi era un obiettivo molto più sostanzioso dei meccanismi di cambio per la riduzione delle fluttuazioni monetarie: un sistema di cambi fissi, fondato su una valuta comune. In questa battaglia teorica si è creato quel magma di teoria economica sottostante la moneta unica. 

Per cominciare si potrebbe spaziare dal confronto tra Monetaristi francesi ed Economisti tedeschi nel periodo precedente agli anni settanta e il cui confronto impregna le pagine del Rapporto Werner; poi fiorì anche la letteratura nel campo delle Aree Valutarie Ottimali (AVO o OCA nell’acronimo inglese dell’Optimum Currency Area) il cui padre Robert Mundell (anche se sostanziose tracce sull’argomento possono essere trovate in precedenza nei lavori di James Meade) ottenne un premio Nobel per i suoi studi in materia.

Infine vi sono gli scontri più recenti sulle nuove regole fiscali come portatrici di “disciplina” o “austerità”. Volendo sintetizzare molto, forse anche eccessivamente ed erroneamente, molte delle discussioni, più che sulla moneta, vertono su cosa “fare da grande” di questa area che oggi chiamiamo Unione Europea.

Molte delle storture della moneta unica, di cui questo giornale si è ampiamente occupato in passato, vengono proprio dalla natura unica dell’Unione Europea, partendo dal modo in cui è stata concepita fino a come si è sviluppata. La struttura giuridica e la moneta sono senza dubbio i settori nei quali l’integrazione europea ha raggiunto la maggiore profondità al punto da configurarne una natura che potremmo definire di tipo “federale”. 

Diversa è invece la situazione di tutti gli altri settori su cui, purtroppo, c’è ancora molto da lavorare e proprio su questa differenza si fondano le difficoltà che il transatlantico europeo si trova puntualmente ad affrontare quando le tempeste economiche squassano il continente. Alcuni padri dell’Euro erano ben consci di queste difficoltà, così come lo sono anche alcuni di quelli che oggi vengono chiamati “euroscettici”. 

Uno dei problemi, probabilmente quello principale, che si trova ad affrontare l’Eurozona riguarda la gestione di quelli che gli economisti chiamano shock asimmetrici: cioè situazioni di recessione o di crescita economica che colpiscono in modo diseguale il tessuto europeo mettendo in crisi alcune aree, avvantaggiandone altre. Come affrontarli? 

Se l’integrazione europea avesse raggiunto lo stadio di tipo federale, il problema non si porrebbe neanche e alla regolazione della politica monetaria verrebbe lasciato soltanto il mantenimento della “barra”. Al contrario, a dovere intervenire sarebbero primariamente una politica fiscale comune (attraverso strumenti quali gli stabilizzatori automatici (strumenti di sostegno al reddito, agevolazioni fiscali o creditizie alle imprese, o altri strumenti ancora), una politica di investimenti nelle aree depresse (diretti o attraverso agevolazioni) e, infine, la libera circolazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro). 


Escludendo l’ultimo fattore, anche se è limitato da differenze culturali, linguistiche e giuridiche importanti, delle altre non vi è neanche l’ombra. Soltanto dopo questa crisi stiamo assistendo ad un cambio di passo con l’inizio di una politica fiscale comune per mezzo del Next Generation EU, la cui durata è però a termine e non è chiaro se sarà riproposto in forme simili o diverse, come spera chi scrive.

Fatta salva l’assenza di misure diverse, è la politica monetaria che si trova a dover operare in una forma di supplenza nei confronti di quella fiscale rischiando però di ottenere risultati ineguali fra Paesi membri. Per capire meglio facciamo un esempio concreto. In questo momento il rialzo dell’inflazione non è omogeneo sul continente europeo e le difficoltà di indebitamento sovrano sono, come ben sappiamo, del tutto diseguali. In particolare, l’inflazione sta viaggiando più velocemente nell’area “core” dell’Unione (Germania e i suoi vicini) e più lentamente nei Paesi “periferici”, dove la pandemia ha colpito più duramente l’economia. 

Se la Banca Centrale Europea (BCE) decidesse per una radicale stretta sul Quantitative Easing (QE) e su un rialzo dei tassi di interesse, sicuramente avvantaggerebbe i Paesi “core” mettendo in difficoltà e, probabilmente, rallentando la ripresa di quelli periferici, con ricadute evidenti sia dal punto di vista sociale e occupazionale, sia sul finanziamento della spesa pubblica. Come risolvere questo problema? 

Anche i Paesi a maggiore inflazione stanno soffrendo in questo momento con ricadute economiche importanti. La BCE preferisce attendere e annunciare il non prolungamento del QE nella speranza di essere in presenza di una semplice fiammata inflattiva. In ogni caso, siamo in presenza di una politica monetaria di compromesso non ottimale sia per gli uni che per gli altri. 

I Padri dell’Euro, da qualche autore definiti “architetti”, erano consci di queste difficoltà, sebbene in parte le sottovalutassero e in parte considerassero gli strumenti volti a contrastarne gli effetti “vecchi arnesi” di politiche economiche keynesiane. Molti però erano convinti che proprio il gettare il “cuore oltre l’ostacolo” e approfondire l’integrazione in un settore meno sensibile politicamente, come quello monetario, avrebbe provocato a cascata l’approfondimento di altri settori, volente o nolente, e la storia degli ultimi vent’anni ha dato loro parzialmente ragione. 

In realtà, questa strada ha provocato altri enormi problemi e sofferenze per la gente, derivanti anche da politiche miopi e da piccole rivalse nazionalistiche (si pensi alle politiche adottate nei confronti dell’indebitamento greco). Tutto ciò ha offuscato il privilegio di cui le Istituzioni europee godevano in ampi settori popolari. 

Nonostante le evidenti falle nella chiglia della moneta unica, la barca ha continuato a navigare in questi vent’anni, anche col mare in tempesta. Non bisogna dimenticare come, nel bene e nel male, si siano superate ben tre enormi crisi senza che nessun membro del “club dell’euro” abbia abbandonato la valuta comune per tornare alla divisa nazionale. Con l’euro in tasca abbiamo superato la Grande Recessione del 2008, la Crisi del Debito Sovrano del 2010 e stiamo faticosamente superando la crisi economica provocata dalla pandemia iniziata nel 2020. 

In questi vent’anni gli strumenti di politica monetaria si sono affinati e la famosa “cassetta degli attrezzi” del banchiere centrale, evocata da Mario Draghi, è molto più composita e profonda di prima. Anche dal punto di vista degli altri settori vi è stato un approfondimento dell’integrazione. Basta pensare, infatti, all’Unione Bancaria, all’emissione di debito pubblico europeo per finanziare una spesa extra-bilancio della Commissione, alla nuova capacità, per quanto ancora limitata, di prelievo da parte delle Istituzioni Europee. 

Oggi, a vent’anni dalla nascita della moneta unica e dalla sua introduzione, si è fatta chiarezza: la moneta, per essere sostenibile, ha bisogno che vengano integrati e armonizzati altri settori come ad esempio il mercato del lavoro, l’istruzione, il prelievo fiscale e le politiche di sostegno. Per fare tutto questo, però, è necessario del tempo, poiché è un processo lungo che richiede impegno e pazienza. 

Diversamente, ci sarebbero altre scelte anche se improbabili: tornare indietro con la naturale conseguenza di dover affrontare le crisi da soli, in un mondo sempre più globalizzato, oppure, quella estremamente difficile, se non impossibile, di rimanere a metà del guado sottoposti alle piene del fiume. 

I cittadini possono valutare da soli i vantaggi e gli svantaggi di una valuta comune, tenendo conto, però, che coloro che decisero di gettare “il cuore oltre l’ostacolo” non erano semplicemente dei visionari; molto più spesso erano figli di una generazione che aveva visto le macerie della “discordia” europea e avevano l’intenzione di legare i popoli a un destino comune che evitasse un nuovo conflitto. O, forse, come sosteneva Martin Feldstein in un suo articolo del 1997, ne stavano piantando i semi.