La Cgil vuole abbattere il Jobs Act. Ecco come intende farlo

I tre quesiti presentati dalla Cgil in virtù della proposta di referendum abrogativo che ha raccolto ben 3 milioni di firme, giudicato dalla Cassazione “esaminabile” dalla Corte, avrebbero un possibile effetto collaterale non di poco conto se risultassero di ampio consenso: esautorare la complessa riforma del governo Renzi, il Jobs Act, rappresentando un ulteriore scossone di rifiuto popolare. Una situazione molto scomoda se affrontata prima delle elezioni politiche.

Al di là degli ostacoli alla conferma di una data primaverile per il referendum – innanzi tutto il lasciapassare della Corte Costituzionale – la chiamata al voto della Cgil (che necessita della permanenza di Paolo Gentiloni per consentire il normale svolgimento delle operazioni referendarie) sarebbe in contrasto con le volontà – strumentali o meno – di più parti. Coloro che hanno la responsabilità del Jobs Act, il Partito Democratico e il resto della Maggioranza, pensano a sbrigare le faccende legate alla legge elettorale e andare al più presto alle elezioni, facendo slittare il possibile dannoso referendum; gli altri, il Movimento Cinque Stelle e l’Opposizione, mirano a raccogliere subito i frutti del voto del 4 Dicembre per schiacciare quella che sembra essere rimasta una maggioranza solo in fatto di numeri alle Camere, nonostante il rigetto popolare della Riforma del Lavoro sarebbe un clamoroso assist per incrementare la propria forza.

Ma cosa propone di così tanto distruttivo la proposta di referendum promossa dalla Cgil? In camera di consiglio verranno esaminati i tre quesiti in base ai criteri di ammissibilità “omogeneità”, “chiarezza” e “univocità”. Le proposte riguardano:

  1. l’abrogazione dei voucher – protagonisti di un boom in tutto il 2015 – utilizzati in maniera “flessibile” per le prestazioni di lavoro accessorio, inventati per evitare il pagamento in nero che solitamente avviene per queste piccole fattispecie di lavoro. Per la Cgil di Susanna Camusso questi strumenti introdotti dal Jobs Act sarebbero dannosi perché “permettono la diffusione di impieghi al ribasso, senza diritti e con una risibile contribuzione ai fini previdenziali” e a conti fatti “inutili a combattere il lavoro nero e irregolare” quanto piuttosto una “sommersione” di quest’ultimo.
  2. l’abrogazione delle disposizioni che limitano la responsabilità solidale tra appaltatore e appaltante contenute nell’articolo 29 (comma 2 e 3-ter) del decreto legislativo 276 del 10 Settembre 2003. La proposta di cancellazione mirerebbe a garantire la piena tutela dei lavoratori a prescindere dal proprio rapporto con il datore di lavoro. L’obiettivo sarebbe quello di rendere il regime di responsabilità solidale omogeneo, applicabile in favore di tutti i lavoratori. Nell’articolo 29 attualmente in vigore, sinteticamente, è stabilito che: la responsabilità solidale del committente e dell’appaltatore si estende nei confronti di tutti i subappaltatori; la r. s. riguarda solo i soggetti che rientrano nell’attività di impresa o professionale e ne sono esclusi i committenti persone fisiche; si estende ai “lavoratori” impiegati nell’appalto; non si applica ai committenti pubblici. La precedente normativa in merito, rappresentata dall’art 1676 c.c, invece stabiliva che: la responsabilità solidale riguarda solo il committente nei confronti dell’appaltatore (esclusi i subappaltatori); la r. s. si applica a tutti i datori di lavoro, comprese le persone fisiche; si estende solo ai dipendenti impiegati nell’appalto, esclusi i lavoratori autonomi.
  3. l’ultimo – e forse il più importante – riguarda l’abrogazione della normativa vigente riguardo ai licenziamenti. In poche parole, la questione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, la più delicata e l’ago della bilancia in grado di mantenere o far crollare il Jobs Act. L’obiettivo è quello di ripristinare l’obbligo di reintegrare in servizio il lavoratore licenziato per motivi disciplinari giudicati illegittimi anche per le aziende con meno di 15 dipendenti, a meno che il licenziato non scelga un congruo risarcimento invece del diritto al reintegro. Per le aziende con al massimo 5 dipendenti la riassunzione sarebbe a discrezione del giudice, con un risarcimento e il rientro decisi insieme al lavoratore reintegrato. Attualmente invece il licenziamento ingiustificato prevede il pagamento di un’indennità che va dalle 4 alle 24 mensilità, una sorta di “risarcimento”, che cresce in base all’anzianità di servizio.

La data dell’11 Gennaio, in cui si giudicherà l’ammissibilità del referendum, pare essere una data temuta (più della decisone della consulta sull’Italicum prevista per il 24 Gennaio) e uno degli appuntamenti più attesi nel dibattito politico italiano attuale.

Daniele Monteleone