Gli Inuit groenlandesi: tra caccia di foche e sostenibilità

Nel bombardamento giornaliero di cronache referendarie, nuovi presidenti pazzi e narcisisti, attacchi terroristici e bombardamenti attorno al mondo, certo saranno in pochi a chiedersi cosa avvenga ai confini della civiltà umana… ma è lì, al di là degli oceani, immersi tra i ghiacciai che vive il popolo degli Inuit, i celebri ma poco conosciuti “Eschimesi”.

L’aspetto più affascinante di questo popolo è sicuramente il fatto che la loro identità non sia legata ad un singolo ente statale, quanto più all’elemento che contraddistingue, influenza e dà cadenza alle loro vite: la Natura.

L’unità sociale attorno al quale ruota la loro vita è la comunità: il loro senso di appartenenza statale intesa come cittadinanza è un concetto utilizzato in termini di una  convenienza  spesso  necessaria,  specialmente  nella  stesura  dei  confini;  Il popolo Inuit abita i confini nord del mondo, toccando Canada, USA, Russia, Norvegia, Russia e Groenlandia (parte del regno di Danimarca).

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Uno delle più toccanti e complesse problematiche che hanno tenuto gli Inuit di Groenlandia sul filo del rasoio riguarda un argomento che molti di noi, dall’alto della nostra comoda moralità occidentale, hanno sempre tenuto in mente come una certezza: la caccia delle foche è un’oscenità che deve essere eliminata.

Ebbene cari lettori, a seguito di un’attenta ricerca posso appurare provocatoriamente che bandendo la caccia dai nostri schemi non potremmo fare nulla di più ingiusto e dannoso ma no, non nei confronti delle foche, quanto verso chi le caccia.

Prima di farvi storcere il naso cercherò di spiegarmi meglio. Negli ultimi decenni ci siamo trovati di fronte un immenso sviluppo delle idee vegetariane, ed accanto alla dieta priva di carne è andata crescendo un’attenzione maggiore per i diritti degli animali, tra cui la celeberrima difesa delle foche. Quello che sfugge al nostro occhio occidentale però, è il contesto in cui ciò avviene.

Tutto cominciò nel 1969, anno in cui l’International Found for  Animal  Wealth (IFAW) – rapidamente seguito da Greenpeace – cominciò a mobilitare l’opinione pubblica nei confronti della caccia ai cuccioli di foca in vista dell’industria del lusso; scopo della protesta era la sensibilizzazione contro una barbara pratica che faceva profitto economico dall’uccisione di animali  indifesi.

L’indignazione del pubblico occidentale raggiunse dei livelli talmente alti che nel 1983, il Consiglio dei Ministri della Comunità Economica Europea approvò una direttiva vietante l’importazione di pelli di cuccioli di foca bianca. L’impressione e l’orrore che testimonianze, video e fotografie germogliarono nel cuore dell’opinione pubblica furono talmente radicati che dissuasero numerosi clienti di Stati diversi dall’usufruire di tale capo d’abbigliamento.

Gli effetti del divieto furono sorprendentemente rapidi, ma mentre da un lato i manifestanti cantavano vittoria testimoni del crollo del settore in Canada, totale disinteresse riguardò le esternalità del loro progetto: le popolazioni Inuit che – oltre il Canada, in Alaska e Groenlandia specialmente – in realtà nemmeno cacciavano la specie di foca tanto contestata, soffrirono immensamente dal crollo provocato.

Del tutto inutili furono gli appelli contro la propaganda anti-pelle di foca che la Groenlandia tentò di diffondere per ricostruire le sue esportazioni ai livelli precedenti al divieto; persino il goffo tentativo di scuse ufficiali di Greenpeace del 1985 fu un buco nell’acqua.

Il tasso di disoccupazione in Groenlandia è iniziato ad aumentare e continua ad aver ripercussioni oggi, deprimendo le opportunità economiche ed aumentando la dipendenza sociale di assistenza, lo svuotamento dei villaggi e – per concludere – la decadenza di una cultura che dimentichiamo essere millenari; il senso di perdita d’identità causato dall’incontro tra mondo globalizzato e tradizionale che sfocia in un divieto di espressione della propria cultura ha inoltre provocato l’aumento dei tassi di suicidio e del già alto abuso di alcol.

La storia si è poi ripetuta nel 2010, quando a seguito di nuove pressioni l’UE ha vietato ufficialmente il commercio di prodotti di foca, sia legati al cibo che all’ambito vestiario, con eccezione dei prodotti Inuit. Tale dispensa risulta meramente formale e accademica e purtroppo non cambia i risultati in  gioco.

La caccia alle foche (insieme al pascolo di renne e altre pratiche tradizionali della loro cultura) è sostenibile in quanto essi stessi fanno parte dell’ecosistema che difendono, da millenni, e dovrebbero essere non solo protetti, ma anche incoraggiati da un arco di politiche domestiche ed internazionali realmente interessate ad aiutare questo popolo a raggiungere una maggiore potere d’acquisto in quanto spesso uno dei pochi mezzi di sussistenza quella comunità possiede.

Perché la caccia è così importante per questo popolo, dunque? Il destino delle comunità Inuit basa la sua sussistenza sulla caccia per una duplice ragione: se da una parte il clima rigido infatti non permette alcun tipo  di  agricoltura nella regione, rendendo la caccia un bene di prima necessità per la loro sopravvivenza,  lo  scambio  commerciale  della  pelliccia  è  uno  dei pochissimi elementi di valore da poter utilizzare nello scambio in un mercato globalizzato e indomabile come quello con cui abbiamo a che fare oggi; è fondamentale inoltre sottolineare che ciò che noi intendiamo per “caccia commerciale” si erge un universo lontano da quello che le pratiche tradizionali dei popoli indigeni dell’ Artico realmente rappresentano in termini di impatto sostenibile sull’ambiente: infatti gli Inuit hanno dimostrato chiaramente quanto la protezione dell’ ecosistema che essi considerano casa, abbia una preponderanza assoluta: le loro pratiche di caccia non sono mai state una minaccia per la riproduzione della specie (messe in pratica da millenni), conducendola nel pieno rispetto per l’ambiente e cercando di utilizzare un metodo istantaneo di uccisione dell’animale.

Lungi dall’essere sostenitrice della industria della pelliccia o della caccia sportiva, vorrei concentrarmi su questo caso come un esempio illuminante di imposizione di una nuova forma di il colonialismo, concentrandosi sulle relazioni diseguali tra le popolazioni Inuit (uno groenlandese, nello specifico) ed i paesi occidentali.

Un importante nuovo passo che la ricerca dovrebbe intraprendere è un’analisi innovativa di quelli che potremmo definire “diritti umani del nuovo millennio”, volti ad espandere la copertura delle dichiarazioni e trattati internazionali  esistenti  dando loro un punto di vista maggiormente individualista: attento ad ricercare non soltanto l’universalizzazione dell’uguaglianza tra i popoli, come già avviene, ma la ricerca di più rifinite e modellabili attenzioni attente alle differenze inter-culturali.

Rischiando di attirare molte antipatie voglio sostenere con forza che la promozione della caccia ed i suoi ricavati, nel caso della Groenlandia e degli Inuit in altri paesi artici, insieme ad un processo educativo alla loro condizione (così ignorata dall’Occidente), potrebbe agevolare le dure condizioni di vita Inuit per far parte del mondo globalizzato, imparando noi ad essere più propensi ad accettare pratiche lontane dalla nostra mentalità nel rispetto dell’ identità di popolazioni lontane da noi.

Felicia Modica