L’eredità di «Il Buono, il Brutto, il Cattivo»

Di Valentino Billeci – «Vedi, il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica e chi scava. Tu scavi» [Il Buono]. La grande eredità cinematografica di Sergio Leone è indiscutibile. Leone ha impresso nelle nostre menti scene, dialoghi, inquadrature e musiche che sono autentici pilastri del Cinema. Molti registi oggi rendono omaggio al Maestro riproponendo nei loro film dei piccoli omaggi.

Gli Spaghetti western differiscono da quelli americani per la presenza di alcuni tratti: più sangue e violenza e ricerca del realismo. Leone inoltre pose l’accento sulla creazione del mercenario solitario e dell’ “anti-eroe”, ossia un protagonista che non rispecchiasse i classici canoni dell’eroe buono. Tutti questi elementi di produzione possono essere ritrovati nel suo grande capolavoro “Il Buono, il Brutto, il Cattivo”, che resta attualissimo e pieno di significato anche oggi.

Il lavoro pionieristico di Leone non risiede solo nella produzione ma nella volontà di rompere le barriere cinematografiche imposte da Hollywood. Sullo sfondo della guerra civile americana tra nordisti e sudisti, il regista ci mostra degli Stati Uniti differenti da quelli a cui siamo abituati. Il film ha tre protagonisti, Il biondo (il buono) interpretato da Clint Eastwood, Tuco (il brutto) interpretato da Eli Wallach e Sentenza (il cattivo) interpretato da Lee Van Cleef. Ciascuno, col suo carattere ed i suoi interessi, dovrà allearsi con l’altro per uno scopo comune. Emergono tre forti personalità che in un vorticoso triplo gioco porta diffidenza ed inganno.   

Ricordava Leone: «Non sentivo più tutta quella pressione per offrire al pubblico un diverso tipo di film. Ora potevo fare esattamente il film che volevo… fu mentre riflettevo sulla storia di “Per qualche dollaro in più”, e su ciò che la faceva funzionare, sulle diverse motivazioni di Van Cleef e di Eastwood, che trovai il nucleo del terzo film. Mi sembrava interessante demistificare questi aggettivi nell’ambientazione di un western. Un assassino può fare mostra di un sublime altruismo, mentre un buono è capace di uccidere con assoluta indifferenza. Una persona in apparenza bruttissima, quando la conosciamo meglio, può rivelarsi più valida di quanto sembra  e capace di tenerezza».

I tre del film si ritrovano nel celebre “Triello”, un trionfo di tensione causato dall’incertezza e dall’indecisione. I primi piani, il crescendo dell’Estasi dell’Oro composta da Ennio Morricone, il sudore, la suspence e la brama del denaro riportano lo spettatore alla soddisfazione primaria dell’essere umano, la gratificazione dell’ego. In parallelo al cast ed al regista, il grande Maestro Ennio Morricone dona, con un ultimo tocco sinfonico, l’immortalità alla pellicola, chiudendo il cerchio di un’opera quasi perfetta.

La musica è fondamentale in un film e Sergio Leone lo sapeva bene. Avendo già collaborato con Morricone, la colonna sonora venne composta prima delle riprese, dando piena libertà all’immaginazione del compositore italiano. Urli, percussioni, fiati, archi e chitarre coinvolgono lo spettatore  immergendolo nel film e facendogli provare le stesse emozioni degli attori.

Ricorda Morricone: «Quando dirigo il pezzo in concerto, gli ululati di coyote che danno il ritmo ai titoli del film sono realizzati di solito col clarinetto. Ma nella versione originale adottai soluzioni molto più inventive. Due voci maschili cantavano sovrapponendosi l’una con l’altra, una gridando A e l’altra E. Gli AAAH ed EEEH dovevano essere eloquenti, per imitare l’ululato dell’animale ed evocare la ferocia del selvaggio West».

La pellicola è molto lunga, circa 3 ore di film. La ritmica è molto lenta ma è salvata dalla curiosità e dal pathos crescenti. La lunga produzione rispecchia i problemi e i limiti dei tempi nella ricerca del realismo. Girato in Spagna sotto il regime franchista con l’assistenza dell’esercito, il film mise in serio pericolo la vita di Eli Wallach in alcune scene.

Durante le riprese del film vi furono diversi episodi di rilievo. Wallach rimase quasi avvelenato quando accidentalmente bevve da una bottiglia di acido lasciata da un tecnico vicino alla sua bottiglia di soda: egli menzionò questo fatto nella sua autobiografia e si lamentò affermando che nonostante Leone fosse un brillante regista, era completamente noncurante delle misure di sicurezza degli attori durante le scene pericolose.

L’attore fu in pericolo in un’altra scena, nella quale stava per essere impiccato dopo che fu sparato un colpo di pistola e il cavallo sotto di lui stava per scappare dalla paura. Mentre la corda intorno al collo di Wallach si ruppe, il cavallo si imbizzarrì e corse per circa un miglio con l’attore ancora su di esso e le sue mani legate sul dorso.

La terza volta, e la più assurda, nella quale Wallach rischiò la vita fu durante la scena nella quale lui e Brega dovevano saltare dal treno in movimento. Il salto andò bene, ma Wallach rischiò di morire quando il suo personaggio doveva rompere la catena che lo legava all’altro personaggio, ormai morto.

Tuco mise il corpo di Wallace sui binari, facendo passare il treno sulla catena rompendola. Wallach – e presumibilmente tutto il cast – non si era accorto che i gradini di metallo sporgevano di circa 30 cm da ogni vagone: se l’attore si fosse alzato dalla sua posizione al momento sbagliato, uno dei gradini sporgenti l’avrebbe decapitato. Successivamente Leone chiese a Wallach di rifare la scena, ma quest’ultimo disse che non l’avrebbe mai più fatta in vita sua. Altro limite era il linguaggio sul set: Morricone parlava pochissimo inglese, la troupe era spagnola e Wallach parlava in francese.

Oltre gli aneddoti e la difficoltà nel girare, il film ebbe grande successo di pubblico ma venne criticato dalla stampa, in particolare perché i western italiani erano ampiamente sottovalutati. Il tempo e il pubblico hanno dato ragione a questo grande film, pilastro del cinema e dei western: basti valutare i tributi, le influenze e gli omaggi che gli sono stati riconosciuti negli anni.

Clint Eastwood ricorda così Sergio Leone: […] Voglio dire, ha le sue idee, e penso che il fatto di non sapere granché sul West sia quello che per lui funziona… Penso che il suo approccio aperto, da adolescente – e non lo dico in senso negativo – nei confronti del cinema abbia dato al film un look nuovo… All’epoca faceva cose che in un western i registi americani non avrebbero mai osato fare. Sergio ha avuto un approccio visuale interessante fin dall’inizio. Riusciva a mettere insieme le cose molto bene. Ero abituato a girare in posti dove le riprese erano fatte su una scala molto più piccola, mentre lui girava in luoghi grandi, una cosa che mi piaceva. Era un grande fan di John Ford e simili. Voleva fare le cose in grande».


 

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