Elezioni Usa, La grande incertezza americana

L’attesa è finita. Tra qualche ora sapremo chi sarà il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America. L’election day giunge al termine di una campagna elettorale tra le più controverse della storia statunitense.

Politicamente scorretta, carica di tensioni e insulti, colpi bassi e colpi di scena, ma soprattutto scandali da una parte e dall’altra. E come tale non poteva che dividere l’elettorato americano e rendere inutile qualsiasi previsione sul possibile vincitore. Anche se alcuni sondaggisti e analisti, nei giorni pre e post dibattiti pubblici, avevano azzardato un tentativo di fuga da parte della Clinton, con tanto di considerazioni a latere di un Trump già formalmente sconfitto. Mai previsione è risultata più errata. La riapertura dell’emailgate da parte dell’Fbi è solo un episodio a margine di un quadro, che fin dall’inizio, ha visto il predominio dell’incertezza. E che ancora ora presenta delle incognite, su cui inevitabilmente verterà il risultato finale.

La paura e il malcontento popolare: gli alleati di Trump

“Make America great again” è stato lo slogan di Trump per tutta la campagna elettorale. Un motto che ha attratto molti sostenitori. In modo sorprendentemente trasversale, ma soprattutto proveniente dalla maggioranza bianca e dalla cosiddetta middle-class. Proprio il malcontento popolare di quest’ultima rappresenta per Trump una solida base elettorale di partenza. Le parole del candidato repubblicano ripercorrono le paure e i timori che queste porzioni di società americana sentono da tempo per colpa della globalizzazione con tutti i suoi derivati. La delocalizzazione, la deindustrializzazione, la manodopera immigrata, la diminuzione del potere d’acquisto legato all’abbassamento degli stipendi medi nel corso degli ultimi anni. Tutti punti che Trump ha toccato durante i suoi interventi, non senza gaffe prive di fondamento. Per ultima, la presunta minaccia alla Ford di innalzare le tasse per ogni auto prodotta, di fronte al trasferimento da parte dell’azienda della propria produzione all’estero o peggio ancora in Messico. Poco conta che la Ford abbia puntualmente smentito. La gente si rivede nelle parole del tycoon perché testimone degli effetti della globalizzazione di cui Wall Street e le grandi multinazionali, visti come alleati della Clinton, sono giocoforza protagonisti. Così come l’immigrazione, altro punto essenziale della dialettica spicciola di Trump, che all’idea di un paese vulnerabile per il sopraggiungere e presenza dei musulmani o per i messicani, fronteggia una soluzione di impatto, con repressioni e muri al confine e controlli all’interno contro chiunque abbia a male l’America. La forza di Trump, insomma, sta nella capacità di aver riacceso la fiammella nazionalista dei ceti dimenticati, di chi non è riuscito a inquadrarsi nell’odierno mondo globalizzato. Una parte minoritaria, ma comunque consistente della società americana, che rischia di fungere da effetto domino verso altri settori delusi o in bilico, ad oggi senza dubbio in crescita.

I nodi della Clinton: la tradizione repubblicana in Ohio e il voto dei Millenials

Che nell’establishment democratico si respiri aria di beffa, lo si denota anche dalle ultime mosse elettorali, che hanno visto iniziative persino negli Stati considerati qualche ora prima “sicuri”. Logica conseguenza di non voler dar nulla per scontato. Come in Ohio, uno degli swing States, stati in bilico, che da Stato alla portata dei democratici sembra aver scelto definitivamente la causa di Donald Trump. Le preoccupazioni economiche, gli strascichi delle crisi degli anni scorsi, gli stravolgimenti in corso d’opera dal punto di vista industriale sono diventati degli alleati per il tycoon, e degli ostacoli insormontabili per l’ex first lady. Il legame con il mondo della finanza, delle banche e in generale con i colossi delle multinazionali danneggiano l’immagine della Clinton agli occhi di una popolazione, che ha pagato sulla propria pelle il periodo nero del 2008 in poi. E che, a distanza di anni, non ha dimenticato. Per questo, in molti sembrano propendere per Trump. “Per scuotere il sistema”, insomma. E per il candidato repubblicano non può che essere un buon viatico, dato che nessun candidato del Grand Old Party è diventato presidente, senza passare per la vittoria dell’Ohio. La Clinton ne è consapevole, e forse anche per questo ha provato fino all’ultimo a far sentir la propria presenza nel territorio, con una comparsata nel concerto organizzato per la campagna democratica a Cleveland. A supportarla nel palco, Beyoncè e Jay Z, due star di colore, ma soprattutto due icone del mondo giovanile. Non una casualità, l’abbraccio con i due. Piuttosto un modo per catturare i voti degli afroamericani certo, ma anche dei millenials, la generazione nata ai piedi del 2000, e diventata oggigiorno un fattore determinante. La speranza della Clinton è che questi rappresentino almeno in parte quanto abbiano fatto negli anni passati durante le campagne elettorali di Barack Obama, che di questa generazione è riuscito a raccoglierne il sostegno tramite il proprio carisma. A ben vedere non la prima qualità che emerge dal portamento della Clinton. Per questo il suo tentativo appare tardivo quasi disperato, anche nell’intento di limitare il fenomeno dell’astensione, che tra i due candidati rischierebbe di incidere negativamente sulle speranze della candidata democratica. E non solo di vincere in Ohio.

Mario Montalbano