Palermo ospita le foto di Steve McCurry

Di Simona Di Gregorio – Palermo – 14 Ottobre 2016 – la mostra “Icons” di Steve McCurry apre le sue porte. Ospitata dal monumentale complesso della Galleria di Arte Moderna, sorgente nella silenziosa Piazza Sant’Anna, la mostra è stata allestita ed è giusto affermare ben curata, da Biba Giacchetti.

Una volta varcato il limite tra la realtà quotidiana e il surreale pittorico immortalato nei cento scatti a noi offerti, ci si trova ad affrettare il passo tra corridoi bianchi ed un’incalzante susseguirsi di immagini che trascinano fin dal primo momento in un turbine centrifugo di emozioni capaci di far viaggiare lontano nel tempo. All’interno dell’allestimento si perde il senso dell’orientamento, viaggiando con lo sguardo e con la mente dall’Afghanistan al Pakistan, dal Brasile alla Birmania, da Beirut ad Hong Kong  passando dall’India. Niente è lasciato al caso, ciascun accostamento è ben studiato per osteggiare ogni pensiero razionale e far fluire le emozioni. Ciò che in un primo momento colpisce è il contrasto fra la tristezza degli occhi dei primi ritratti e i colori sgargianti delle vesti o delle polveri che richiamano tradizioni festose. Si avverte fin dall’inizio della mostra lo scopo del percorso: un viaggio catartico dello spettatore che ha inizio dai ritratti colorati e tristi e procede lento mostrando diapositive meno vivaci, cariche di dolore e povertà.

Un chiaro scuro dettato dalla luce non turba il visitatore e lascia un barlume di speranza per poi giungere ad un ακμή di immagini grigie e sporche di carbone, crude, fatte di solitudine e coraggio, di odio e di sofferenza ma caratterizzate anche da fierezza e dignità.

La prima sala della mostra si chiude con il nero di un burka, ma quando sembra che l’angoscia debba caratterizzare la visita, subito il sorriso di una donna in Birmania rilassa i sensi e prepara a continuare il percorso.

Il percorso continua tra immagini di bambini poveri, di guerra, di disperazione, ma anche di meravigliosi palazzi, di tramonti sperduti; è un vero e proprio susseguirsi di alti e bassi, di colori, di luci e di ombre. Il percorso organizzato dalla mostra è ben studiato per disorientare, per decostruire e per lasciare lo spettatore smarrito.

Uscendo dalla mostra non bisogna sentirsi né bene né male, solo profondamente turbati, cambiati e in sintonia con il mondo. Forse è proprio questo il cuore della mostra: creare un ”  fil rouge” capace di legare ogni spettatore con il mondo. Le immagini crudeli del telegiornale divengono, grazie a Steve, quadri che evocano la pittura Rinascimentale 500esca, caratterizzata dai ritratti di Botticelli, dall’acutezza e dalla precisione, dall’espressività dei volti illuminati da colori luminosi e da un sapiente uso della luce sui corpi in movimento.

Una pittura istantanea che non mente, che mette in mostra la realtà acerba e che fa emergere anche un altro aspetto, un po’ dimenticato, quello della quotidianità. La guerra esiste e distrugge le città, fa morti e feriti, ma non ferma il tempo. La povertà uccide, la povertà dispera e mortifica ma non toglie spazio a quelle azioni quotidiane che caratterizzano il lungo scorrere perpetuo della vita.

Chi è l’autore di tutto ciò? Steve McCurry. Da oltre trent’anni considerato il simbolo della fotografia contemporanea ha fatto del reportage un’arte pittorica. Nonostante il passaggio dall’analogica al digitale il grande maestro ha saputo rimettersi sempre in gioco per mettere a fuoco immagini indimenticabili.

Giovane studente nato in Pennsylvania, fin da subito intraprese l’esplorazione di alcune zone calde nel mondo. Con uno zainetto in spalla e una macchina fotografica, nel lontano 1950 iniziò a collaborare come fotografo di un giornale locale e subito dopo tre anni partì verso l’India per un vero e proprio viaggio documentato dagli scatti. Fin dall’ora il suo principale interesse è sempre stato osservare da vicino i conflitti. Grazie alle sue immagini, divenute ormai emblema dell’informazione mediante la fotografia S. McCurry rende a noi tangibili gli effetti dei conflitti che infuocano il mondo. Una continua testimonianza divenuta fondamentale e ricercata dalle riviste più prestigiose come Time, National Geographic, Geo ma anche Newsweek e Life. Testimone dei fronti di guerra dalla Jugoslavia fino al Kuwait e alla Cambogia, Steve non ha lasciato spazio alla paura e coraggiosamente si è spinto alla ricerca di quello scatto capace di sensibilizzare. Privo di sentimentalismi superflui e di pathos, ci rivela tristi realtà spesso superficialmente ignorate.

Più volte premiato con il Word Press Photo Award, è riconosciuto come il più grande maestro della fotografia contemporanea ed è divenuto punto di riferimento sia per l’informazione giornalistica, sia per il valore incommensurabile che ha la sua di documentazione dal punto di vita storico, ma  anche per il suo valore artistico. Steve riesce a fare del tragico un capolavoro.

Nel percorso della mostra, largo spazio è dedicato alla Monna Lisa di Steve: Sharbat Gula, una ragazza proveniente dal campo profughi di Peshwar, in Pakistan; divenuta celebre in quanto protagonista di una memorabile copertina di National Geographic. Incluso nel percorso può essere visto il video documentario che racconta l’estenuante ricerca effettuata dal fotografo, 17 anni dopo lo scatto, per ritrovare quella ragazzina dagli occhi verde smeraldo.

Perché tanta attenzione per Sharbat Gula? Innanzitutto perché la foto del suo viso ha dato voce ad un conflitto, rimasto silente e infiammatosi negli anni ’80 in seguito all’invasione Sovietica in Afghanistan (1979. Il suo volto incarna la storia della seconda più grande popolazione di rifugiati al mondo dopo i palestinesi.

L’interesse inoltre è accresciuto dal fatto che la ragazza divenuta ormai donna è stata arrestata proprio in questi giorni dalle autorità Pakistane per falsificazione di documenti.

La foto risale al 1984, anno in cui Sharbat Gula aveva solo dodici anni, adesso ha gli occhi segnati dalla povertà e dalla sofferenza ma ancora lotta per poter sopravvivere portando su di sè il marchio che un rifugiato porta per tutta la sua vita. La storia di Sharbat non è una storia speciale, ma lo diviene in quanto simbolo di tutti i rifugiati e soprattutto è un pretesto per riflettere su quanto in 25 anni di storia le cose non siano cambiate. Gli scenari mutano, i conflitti si trasformano ma le vittime rimangono immutabili: donne e uomini divenuti vittime della crudeltà continuano a dover lottare per cancellare il marchio che la storia ha inciso a fuoco sulla loro pelle.

Recenti notizie riportano che la polizia ha arrestato Sharbat nel Pakistan nord-occidentale per aver trascorso una vita normale da pakistana e non da rifugiata afghana in Pakistan. Le notizie giungo dall’emittente tv DawnNews.

Steve dichiara “ho imparato ad essere paziente. Se aspetti abbastanza le persone si dimenticano della macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te” .

Da queste vibrazioni messe a fuoco e donateci attraverso le immagini dobbiamo cogliere l’essenza del lavoro di Steve McCurry e dopo un’attenta e certosina visita del catalogo che arricchisce la mostra; varcare la soglia verso piazza Sant’Anna con l’anima vibrante di una profonda metamorfosi!


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