La ribellione silenziosa di Norman

Di Mario Montalbano – Il 9 ottobre 1968, Peter George Norman, atleta bianco di nazionalità australiana, si trovava lì sul podio dei 200 metri ai Giochi olimpici di Città del Messico. Merito di una grande impresa, valsagli una preziosa ed inattesa medaglia d’argento.

Al suo fianco, gli altri due premiati, Tommy Smith e John Carlos, i velocisti statunitensi neri, che in quel podio si sarebbero resi protagonisti di uno dei gesti più rivoluzionari della storia sportiva contemporanea. Al momento della premiazione, i due atleti afroamericani chinarono il capo sollevando ciascuno di loro un pugno coperto da un guanto nero, a sostegno del movimento denominato Olympic Project for Human Rights. Un segno di ribellione, di libertà, ma soprattutto d’uguaglianza.

Anche lo stesso Peter Norman, in solidarietà con gli atleti afroamericani, decise di indossare lo stemma sul podio. Un gesto silenzioso, ma altrettanto rivoluzionario, passato, ovviamente, sotto traccia nell’eco mediatico generato dai pugni alzati al cielo da Smith e Carlos. Ma, non in patria. Il mondo australiano non l’ha prese bene, redarguendolo tramite il capo delegazione. Figlia anche della reazione, che vi fu eccome, della società australiana di quegli anni, scossa com’era dal susseguirsi degli scontri fra bianchi e neri. Non una vera e propria punizione, e la federazione australiana ha sempre tenuto a precisarlo. Ma, è inevitabile che quanto avvenuto quel giorno abbia influito sulla carriera sportiva di Peter Norman soprattutto in termini di considerazione e di fama. O sarebbe meglio dire mancata considerazione e mancata fama, che, invece, sarebbe dovuta spettare ad un medagliato olimpico.

Una progressiva discesa verso l’oblio, verso il dimenticatoio. Prima sulla carriera sportiva, che dal 1968 proseguì ancora per qualche anno fino a quando un infortunio impedì all’uomo più veloce dell’atletica australiana di qualificarsi alle Olimpiadi del 1972 di Monaco. Un peccato, visto che Peter Norman, quel limite per entrare a far parte della spedizione, lo aveva superato più e più volte. L’Australia decise di rispettare rigidamente l’esito dei Trials, non inviando nessuno in quel di Monaco. Da quel momento, su Peter Norman calò il sipario. A malapena le corse amatoriali gli permettevano di coltivare la propria passione per l’atletica, ma nulla più.

A pesare erano anche gli ostracismi, silenti e subdoli, che gli avrebbero impedito di avere una qualche sorta di ruolo all’interno del mondo sportivo australiano. Si dice che Norman si fosse rifiutato di scusarsi, o forse di ritrattare il motivo di quel gesto. Non si sa, la storiografia in questo senso, è ondivaga. Così come lo è sul trattamento riservato a Norman negli anni a seguire, specie durante gli eventi a contorno dei Giochi olimpici di Sydney del 2000. Sarà una partecipazione a latere, però, venendo escluso anche dal giro d’onore allo stadio, riservato agli atleti più importanti nella storia australiana. Eppure era, e lo è ancora oggi, il più grande velocista australiano della storia. Il comitato olimpico ha sempre negato ostracismo e persecuzione nei confronti di Norman. Sarà. Sta di fatto, che un mea culpa sia comunque arrivato. Nel 2012, da parte del Parlamento australiano, che si scusò con l’ex atleta per quanto patito nel corso degli anni da quel lontano 1968. Una presa di posizione tardiva, giunta a ben sei anni di distanza dalla morte di Norman, avvenuta il 3 ottobre 2006.

Qualche mese prima della sua morte, nel campus di San Josè, venne inaugurata la statua raffigurante l’immagine dei due atleti americani con il pugno alzato. Già solo dei due velocisti afroamericani, di Norman nessuna traccia. Il secondo gradino del podio era vuoto. “Ci ha chiesto lui di non apparire nell’opera. Voleva che il suo posto sul podio fosse lasciato vuoto”, ha confessato Carlos in un’intervista tv, “Affinchè chiunque salisse in seguito su quella statua potesse provare le stesse sensazioni”. Sensazioni di silenzio, abbandono, indifferenza, ma anche solidarietà, orgoglio e onore. Quello che Carlos e Smith non hanno mai smesso di riconoscergli, aiutandolo persino nei momenti difficili e di ristrettezze economiche. E non lo abbandonarono neanche nel giorno del suo funerale, supportando il suo feretro all’uscita dalla chiesa, il 9 ottobre 2006, nello stesso giorno in cui Norman fece la storia, a suo modo. In silenzio. Profondo, ma assai roboante.


 

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