Deutsche Bank: il malato finanziario europeo

Quella della Deutsche Bank è una situazione abbastanza critica, con poche mosse possibili per risolverla. Il colosso tedesco soffre, come tutte le banche dell’eurozona, le difficoltà legate ai bassi tassi di interesse imposti dalla BCE per sostenere l’economia. La politica dei tassi zero comprime il margine di ricavo che le banche possono ottenere offrendo prestiti alla clientela e li rende meno remunerativi. La conseguenza è che le banche si trovano in una situazione di ricavi decrescenti e di costi difficilmente comprimibili se si escludono i, sempre più utilizzati, “esuberi” nella manodopera.

A queste difficoltà di ordine generale, la Deutsche Bank accompagna diversi disordini nel bilancio che non sono passati inosservati agli occhi degli investitori (istituzionali e non). Il primo grosso problema è il bilancio di esercizio: quello dell’anno 2015 si è chiuso con perdite di 6,8 mld di euro. Il prossimo anno la situazione non dovrebbe migliorare di molto perché si stima una chiusura con perdite per circa 1 mld. Esaminando ancora più a fondo i conti, la situazione non fa che peggiorare nonostante la tendenza ad un “lifting” positivo dei bilanci. I ricavi della banca sono in calo del 20%, probabilmente questo è dovuto alla politica dei bassi tassi d’interesse, anche se il calo è abbastanza marcato rispetto alle altre banche europee. Questo ha comportato un notevole peggioramento del rapporto cost/income che è arrivato intorno all’80% e potrebbe ulteriormente salire. In pancia la banca dichiara ben 32 mld di derivati di livello 3. I derivati di livello tre sono quelli illiquidi per i quali non vi è mercato e il cui valore è molto complesso da stimare. Il capitale di garanzia è di 215 mld, una cifra considerevole ma che diventa leggera di fronte alla quantità e alla qualità degli impieghi della banca. Secondo stime che circolano negli ambienti finanziari, basterebbe una riduzione del 4% del valore degli attivi per la completa erosione del capitale di garanzia. Una riduzione che potrebbe non essere impossibile nelle condizioni economiche attuali. Dal punto di vista della leva finanziaria è visibile un dimezzamento dell’esposizione rispetto al periodo pre-crisi ma il rapporto di 1/25 rimane comunque considerevole rispetto alla larga maggioranza degli istituti europei. A questa situazione “idilliaca” bisogna aggiungere il peso, non marginale, delle multe per i comportamenti scorretti sul mercato: quella statunitense di 14 mld è solo una delle diverse segnate in bilancio.

Data la presente condizione, non stupisce che il colosso finanziario sia finito nel mirino del mercato: il valore delle obbligazioni convertibili è crollato ed una sorte simile è capitata alle azioni, che hanno grosso modo dimezzato il proprio valore da inizio anno. Alcuni fondi comuni statunitensi hanno deciso di vendere in modo massiccio per porsi al riparo dalla volatilità delle azioni, aggravando ulteriormente la situazione di crollo azionario. Superfluo sottolineare come gli swap (“scommesse” sul fallimento) sulla banca siano in rapida crescita. Il colpo di grazia è arrivato da un rapporto del FMI[1] sulle condizioni del mercato finanziario tedesco, nel quale si indica la banca come la principale fonte di rischio sistemico globale. Uno dei motivi principali del rischio sistemico della banca, oltre alle evidenti dimensioni e interconnessioni finanziarie, è l’esposizione in derivati: ben 75000 mld (circa 20 volte il PIL tedesco). In caso di caduta della banca questi derivati farebbero saltare molti intermediari finanziari mettendo a rischio il mercato finanziario globale. La situazione che si ripropone è quella classica del dualismo da “too big to fale” a “too big to save”.

Le soluzioni per questa situazione intricata non sono semplici e neanche numerose. La prima potrebbe essere la classica soluzione di mercato fondata sul taglio dei costi (con una mole non indifferente di esuberi) e accompagnata da un aumento di capitale che dia liquidità. La seconda, in caso di fallimento, è l’applicazione della recente normativa sul “bail-in” (il costo ricadrebbe quindi su azionisti, investitori e risparmiatori)[2]. Il costo economico-finanziario di questa scelta, però, sarebbe talmente devastante da non dovere essere neppure contemplata perché, nel caso venga messa sul tappeto, il ciclone finanziario potrebbe travolgere tutto. La terza soluzione, nonché quella più auspicabile, è quella del classico salvataggio dello Stato con ripercussioni però sulla politica bancaria europea. Dovrebbero essere cambiate le regole sul “bail-in” e la Germania dovrebbe addivenire a più miti consigli in materia. Non resta che rimanere alla finestra e aspettare, sperando che non diluvi

Francesco Paolo Marco Leti

[1] http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2016/cr16189.pdf

[2] https://www.bancaditalia.it/media/approfondimenti/2015/gestione-crisi-bancarie/index.html


 

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