L’Irlanda del Nord e il pericoloso focolaio della Brexit

Di Maddalena Tomassini – Quando un proiettile ha colpito e ucciso Lyra McKee, giornalista e attivista per i diritti LGBT, durante una sommossa della New IRA, in molti hanno trattenuto il fiato. Cinque giorni dopo, il gruppo di dissidenti indipendentisti ha riconosciuto la propria responsabilità sulla morte della 29enne, definendola tuttavia un incidente. Oggi l’allarme sembra rientrato, ma un senso di oppressione continua a opprimere il petto di tanti nordirlandesi.

Una sensazione risvegliata dal referendum sull’uscita dall’Unione Europa, il 23 giugno 2016, quando lo spettro di un confine sorvegliato è tornato a imporsi sulla regione. Non a caso, i collegi elettorali nordirlandesi al confine hanno largamente votato per il Remain: South Down al 67,2%, Newry & Armagh al 62,9%, Fermanagh & South Tyrone al 58,6%. Nel complesso, l’Irlanda del Nord ha votato al 55,8% per restare nell’Unione Europea.

Time_for_Peace

Sono passati 21 anni dal 10 aprile del 1998, giorno della firma dello storico Accordo di Belfast, meglio noto come l’Accordo del Venerdì Santo. È nata così l’Assemblea dell’Irlanda del Nord, marcando l’inizio del processo di pace. Un inizio, appunto: un patto, un cambio di governo, non cancellano con un colpo di spugna le ferite e i rancori che fino al giorno prima avevano spinto fazioni nemiche ad abbracciare le armi.

In questo caso, vi sono rimasti aggrappati per anni. Basti pensare che nell’estate del 1998, a pochi mesi dalla firma, si sono verificati due tragici episodi. Il 12 luglio, tre fratelli di Ballymoney sono morti bruciati vivi nella propria casa – una delle 144 abitazioni nazionaliste colpite dai lealisti contrari all’accordo.

Il mese successivo, un ordigno della Real IRA ha ucciso a Omagh 28 persone, in gran parte donne e bambini. Un percorso lungo e affatto lineare. L’Assemblea ha assunto i pieni poteri solo nel maggio 2007, e il disarmo di alcuni gruppi paramilitari (nello specifico dell’UDA lealista e delle repubblicane INLA e Official IRA) si è concluso solo all’inizio di questo decennio.

Per capire il presente e guardare al futuro, serve riavvolgere il nastro al secolo scorso. È il 1921, le sei contee dell’Irlanda del Nord si sono divise dalle altre 26, ora parte del nuovo Stato libero d’Irlanda. Un nuovo confine taglia in due l’Isola – una linea tracciata in molte aree arbitrariamente, spezzando comunità, parrocchie, famiglie e territori di uno stesso proprietario. Le sei contee – da alcuni imprecisamente chiamate “Ulster” – sono sotto il controllo di Londra, amministrate localmente dal Parlamento di Belfast, in mano alla maggioranza protestante che esercita nei confronti della minoranza cattolica una sistematica discriminazione.

L’Irlanda del Nord è una polveriera destinata ad esplodere. I troubles iniziano nel 1969. Su un fronte la comunità repubblicana e nazionalista cattolica (rappresentata dal Sinn Féin e dal gruppo paramilitare Irish Republican Army, o IRA), e dall’altro, la comunità unionista e lealista protestante: le ambizioni di autodeterminazione irlandese contro la lealtà alla Corona Inglese. Una giornata segna l’inizio del conflitto aperto. È il 30 gennaio 1972, il Bloody Sunday: l’esercito inglese apre il fuoco su una manifestazione pacifica nazionalista a Derry, uccidendo 14 persone.

In trent’anni il conflitto è costato la vita a migliaia di vittime. Un frastuono di bombe e spari, affiancato dalle urla dei detenuti repubblicani nelle carceri inglesi: arresti arbitrari, torture, umilianti strip-search, confessioni false ottenute con la forza. Abusi sistematici che trovano testimonianza nella storia di Bobby Sands, morto al 66mo giorno di sciopero della fame, il 5 maggio del 1981.

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Un passato così doloroso richiede un lungo percorso di riconciliazione. I due partiti principali al potere – il Sinn Féin e il Democratic Unionist Party (DUP) – faticano a collaborare: non è un caso che durante il funerale di Lyra McKee il padre Martin Magill si sia scagliato contro l’inadeguatezza della politica. Difatti, l’Assemblea è sospesa dal gennaio del 2017, proprio a causa dell’incapacità dei partiti a condividere il potere, chiusi in un settarismo mai superato. I dialoghi per la ripresa dei lavori dovrebbero iniziare il 7 maggio.

Un equilibrio fragile in cui la Brexit è entrata a gamba tesa: ripristinare confini fisici fra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda significa prendere a picconate una delle colonne portanti della riappacificazione.

«Non parlerei già in modo deflagrato di esplosioni di tensioni» spiega Paolo Magri, vicedirettore e presidente dell’Istituto di Politica Internazionale (ISPI). «Certo, veniamo da anni di relativa tranquillità. C’è qualche fibrillazione in più, e l’uccisione della giornalista – per sbaglio, perché questa è stata poi la realtà – è sicuramente un fatto grave, ma non siamo ancora a un clima di tensione che si è vissuto per trent’anni, fino al 1998».

«Detto ciò, è innegabile che la Brexit sia un focolaio pericoloso» continua Magri. «Una questione centrale dell’accordo del Venerdì Santo del 1998 era stata l’abolizione del confine visibile. In qualunque modo vada “Brexit”, salvo la sua cancellazione, questa situazione che aveva contribuito alla riappacificazione verrà meno. Cioè: qualche confine visibile fra Irlanda e Irlanda del Nord ci sarà, anche nell’ipotesi che piace al partito Labour, ma che è indigeribile per i Tories, di rimanere nell’unione doganale con l’Europa, che è una delle forme più morbide di Brexit».