Le conseguenze economiche della Brexit

Di Piera Lazzano – Il grado di coinvolgimento di diversi attori in questa particolare questione è altissimo. Il Presidente statunitense Obama, la Bank of England, diverse istituzioni internazionali e nazionali, le agenzie di rating e il Fondo Monetario Internazionale, si erano schierati contro l’uscita dall’UE del Regno Unito prospettando possibili rischi.

La prima conseguenza della Brexit sono state le dimissioni dell’ormai ex premier Cameron che ha cercato fino all’ultimo di convincere gli elettori a votare per il Remain. Il suo Governo è stato accusato di non aver mai preso una posizione netta e definitiva e questa ambiguità sull’argomento ha fatto perdere probabilmente un po’ la bussola agli inglesi portando poi ad un risultato che di fatto nessuno si aspettava.

Ad oggi ancora è poco chiaro quali reali effetti avrà la Brexit sulla vita degli inglesi e degli europei in generale e benché sia ancora prematuro fare delle analisi attendibili e puntuali, questo evento è già stato inserito dall’Economist nella top five dei possibili scenari catastrofici per i mercati mondiali. Di certo è che si avranno delle conseguenze molto forti per ciò che riguarda l’economia.

Secondo uno studio della Bertelsmann Stiftung in collaborazione con l’Ifo Institute di Monaco, la Brexit potrebbe costare ai contribuenti inglesi circa 313 miliardi di Euro con il Pil in contrazione del 14% nell’arco di 12 anni. Lo studio prende in considerazione due tipi di isolamento del Regno Unito a seguito della Brexit:

Nel caso dello scenario più ottimista la perdita pro capite del Pil si attesterebbe a 220 euro, mentre nel caso di scenario più sfavorevole la perdita pro capite arriverebbe a 1025 euro. L’uscita del Regno Unito permetterebbe la cancellazione delle spese versate all’UE nella partecipazione al budget europeo, consistenti nello 0,5% del Pil che tuttavia non bilancerebbero l’emorragia di Pil causata dalla Brexit. Nel report di Bertelsmann vengono anche analizzati gli effetti sui vari settori dell’economia inglese. Una Brexit potrebbe irritare non poco i Paesi dell’UE che potrebbero decidere di regolamentare in maniera più rigorosa gli scambi con il Regno Unito. Una mossa del genere influenzerebbe diversi settori dell’economia inglese e per ognuno di loro avrebbe effetti più o meno pesanti. Il settore finanziario perderebbe un 5% e potrebbe appesantirsi nel caso in cui molti degli istituti finanziari con base a Londra decidessero di spostare le loro sedi nelle capitali finanziarie dell’Eurozona.

Diversi settori cruciali per l’economia inglese subirebbero un forte contraccolpo. Quello chimico, quello dell’automotive, meccanico e dell’ingegneria sarebbero quelli che più soffrirebbero causando un effetto a catena disastroso. Un impatto incisivo si avrà anche per i Paesi dell’UE rimanenti, certamente meno significativo, ma comunque importante.

Prendendo a riferimento la Germania, l’altra economia più forte in UE, lo studio mostra cifre diverse. In uno scenario di basso isolamento negli scambi per il Regno Unito la Germania brucerebbe 8,7 miliardi di euro di Pil, mentre nel caso più sfavorevole ne perderebbe 58. In termini di pro capite, il caso più favorevole costerebbe 100 euro, mentre il caso più sfavorevole 700. I settori più colpiti sarebbero quello dell’automotive con perdite stimate intorno al 2%, il settore dell’elettronica, quello siderurgico e il settore alimentare. Inoltre, per compensare la mancanza dei contributi al budget europeo da parte del Regno Unito, la sola Germania dovrebbe versare 2,5 miliardi di euro in più rispetto a quanto già versa.

Lo scenario prospettato da questo studio potrebbe adempiersi completamente nell’arco di due anni che è il termine stabilito dall’articolo 50 del Trattato dell’Unione Europea, il quale stabilisce in due anni appunto, il termine limite entro cui rinegoziare gli accordi con il Paese uscente. Scelta improbabile questa considerato che si dovrebbero rinegoziare punto per punto tutti gli accordi vigenti ed è più plausibile che si arrivi ad un’intesa di transizione prima che il Regno Unito esca effettivamente dall’Ue. Ciò che sembra preoccupare sopra ogni cosa è la possibilità concreta che altri paesi possano seguire la scia indipendentista aperta dagli inglesi.

Molto turbato è il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan, che ha parlato di “effetti emulativi” del referendum che potrebbero far nascere “un modello di uscita dall’Unione che altri potrebbero seguire”, come hanno ribadito più volte molti partiti populisti europei. La Francia che di recente ha visto il successo di Marine Le Pen nelle recenti elezioni regionali, ha fatto capire come i francesi comincino ad essere anch’essi insofferenti alle politiche europee. Paesi come la Spagna, il Portogallo, la Grecia e la stessa Italia hanno mostrato a più riprese la loro insofferenza nei confronti delle politiche di austerity che durano ormai da anni e chiedono da tempo di rivedere tutto il sistema di regole che sorregge la politica economica dell’Unione.

La catastrofe economica delineata da Bentelsmann è presunta e sottintende le preoccupazioni di carattere forse più politico che non economico dei Paesi UE convinti (Germania e blocco nordico). Le cifre da capogiro come perdite per il Regno Unito da 100£ miliardi (per la CBI, €330 miliardi per Bentelsmann) e aumento della disoccupazione nell’ordine di 2-3 punti percentuali sembrano per molti analisti previsioni fin troppo pessimistiche e prive di fondamento oggettivo. Bisogna aspettare due anni per capire bene ciò che potrebbe succedere e avanzare ipotesi con dati effettivi che rispecchiano la realtà.  Certo è che la Brexit potrebbe rappresentare la fine della zona Euro e dell’Unione Europea ed è questo ciò che preoccupa più di tutto.

L’agenzia di rating statunitense Standard & Poor’s ha calcolato l’indice di esposizione all’uscita di Londra (Brexit Sensitivity Index), basato su fattori come esportazioni di beni e servizi verso il Regno Unito in relazione al Pil nazionale, flussi bidirezionali di emigrazione, crediti del settore finanziario su controparti britanniche e investimenti stranieri diretti nel Regno Unito. Secondo questa analisi, l’Italia e Austria sono i paesi che meno soffrirebbero dall’uscita del Regno Unito dalla zona Euro. In cima alla classifica invece troviamo l’Irlanda che con il Regno Unito vanta una fitta rete di scambi di merci e servizi e flussi migratori considerevoli, e anche una serie di piccoli centri finanziari che hanno storici legami con il Regno Unito: Malta, Lussemburgo e Cipro. Considerando le grandi economie del Vecchio Continente, invece, a tremare è soprattutto la Spagna.

Ignazio Visco, il governatore di Bankitalia ha ricordato questa classifica in occasione di un recente convegno sulla Brexit. Tra i 20 paesi più in pericolo in caso di uscita della Gran Bretagna, l’Italia si trova agli ultimi posti: il nostro interscambio di beni e servizi con la Gran Bretagna è intorno al 3% del Pil. Anche sul mercato azionario l’esposizione della Borsa italiana sarebbe modesta e limitata ad alcune società: Yoox (14% del fatturato dal Regno Unito), Leonardo (14%), Prysmian (13%), Ferrari e STM (entrambe a 6%), Tod’s (5%). Se si considera, invece, la debolezza del nostro debito pubblico, vi sarebbe la possibilità di un’esposizione indiretta agli effetti della Brexit in termini di instabilità dei mercati, aggiungono gli esperti di Intermonte Advisory. Un impatto duro si avrà invece sulle quotazioni delle nostre banche e sullo spread. Ciò è quanto sostiene Carlo Messina, numero uno di Intesa Sanpaolo, che comunque esclude una situazione simile a quella verificatasi nel periodo pre-crisi della Lehman.

Ancora, secondo il nostro ministro dell’economia Padoan, l’Unione Europea farebbe un grave errore se provasse ad andare avanti come se nulla fosse accaduto. È necessario riflettere su quanto sta succedendo adesso per capire perché si è arrivati a questo punto, quali errori sono stati commessi e cercare di non mandare in fumo il progetto di unità pensato decenni fa dai padri fondatori dell’Unione Europea.

Qualsiasi analisi, previsione, supposizione è oggi prematura. A dieci giorni dal “fattaccio” circolano troppi dati che spesso si contraddicono ed è difficile districarsi in una quantità di informazioni difficile da interpretare e capire. Quello che è certo è che bisogna aspettare e che dovrà passare un po’ di tempo prima che l’Unione Europea capisca e reagisca a qualcosa a cui non era preparata.


 

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