Walter Lippmann: l’opinione pubblica e lo stereotipo dei nostri tempi

Walter Lippmann (1889-1974) è stato uno dei più importanti giornalisti e politologi americani del XX secolo. Fu lui a coniare la famosa definizione di “Guerra Fredda”, usata in una serie di articoli che criticavano le strategie della politica estera di Truman e pubblicati nel volume “La Guerra Fredda: studio sulla politica estera statunitense”. Laureatosi ad Harvard in filosofia e lingue, Lippmann cominciò la sua carriera come giornalista pubblicando numerosi articoli e libri in ambito politologico e sociologico. Vinse due premi Pulitzer, uno nel 1958 e l’altro nel 1962.

Sostenne fortemente la formazione della NATO, la riunificazione della Germania e attaccò aspramente la presidenza Nixon e la fallimentare guerra del Vietnam. Ma la sua esperienza più importante risale nel 1917, quando ricoprì la carica di sottosegretario aggiunto degli Stati Uniti durante la prima guerra  mondiale: un breve interludio, che rappresentò uno strategico punto di osservazione delle convulsioni di una società democratica, apparentemente inconsapevole della propria complessità.

Lippmann poté osservare in prima persona il ruolo dei servizi segreti, del governo, della diplomazia e della stampa per influenzare la società sia in tempo di pace che in tempo di guerra. Tutto ciò venne trascritto nel suo libro più famoso, che rappresenta oggi uno dei pilastri dello studio del linguaggio e della comunicazione: Public Opinion del 1922. L’opera oggi potrebbe risultare datata, poiché manca l’analisi dell’era di internet e lo studio dell’informazione nel XXI secolo. Tuttavia il suo lavoro risulta fresco, assolutamente pionieristico e di facile adattamento ai nostri tempi, anche dopo 94 anni. Public Opinion conserva la sua carica euristica, la sua lucida provocazione e la sua ricchezza descrittiva.

walter lippmann

L’assunto è limpido: come avviene quel complesso ed apparente processo attraverso cui le nostre opinioni diventano “Public Opinion”, volontà nazionale, mente collettiva, fine sociale? Lippmann indaga e descrive i meccanismi attraverso cui le immagini “interne” elaborate nelle nostre teste ci condizionano nei rapporti con la società, gli ostacoli che limitano le nostre capacità d’accesso ai fatti, le distorsioni delle informazioni provocate dalla necessità di sintesi e di manipolazione volontaria della stampa e dei governi. Infine, la paura stessa dei fatti che potrebbero minacciare l’ordine dello Stato e della società.

L’analisi dei capitoli ricostruisce come l’informazione oggettiva sia influenzata dagli scenari mentali di ciascuno, da preconcetti e pregiudizi. Da lì nasce lo “stereotipo”, una visione distorta e semplificata della realtà sociale. Esso è costituito dall’immagine collettiva di un fenomeno, sfruttata ed adattata alle condizioni più favorevoli del giornalismo o della politica. Le persone, fidandosi dei mezzi di comunicazione, accettano lo stereotipo e non analizzano il fatto per mezzo di altre possibilità.

Afferma Lippmann: «L’ipotesi che a me sembra più feconda è che la notizia e la verità non siano la stessa cosa, e debbano essere chiaramente distinte. La funzione della notizia è di segnalare un fatto, la funzione della verità è di portare alla luce fatti nascosti, di metterli in relazione tra loro e di dare un quadro della realtà che consenta agli uomini di agire. […] La notizia non dice in che modo il seme stia germinando nel terreno ma può dirci quando appare sul terreno il primo germoglio».

Il politologo americano porta l’esempio dei bollettini di guerra del primo conflitto bellico, spiegando come venissero modificati e falsificati per mantenere il consenso popolare.

Il lavoro pionieristico di Lippmann resta attualissimo. Uno spunto di riflessione doveroso per tutti noi su quanto ciò che vediamo e sentiamo non corrisponda spesso alla realtà in modo oggettivo. Come ricorda lo stesso Lippmann: “Quando tutti pensano nello stesso modo, nessuno pensa molto”.


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