Riforma costituzionale e referendum: alle urne a dicembre

Di Giuseppe Di Martino – Lo scorso 12 aprile, con 361 sì e 7 no la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva  – alla sesta e ultima lettura – la riforma della Costituzione, il c.d. ddl Boschi (presentato in prima battuta l’8 aprile 2014). Subito un dato significativo: l’opposizione ha disertato il voto in aula, e, dal momento che la riforma è stata approvata senza la maggioranza di 2/3 dei componenti di ciascuna Camera, il governo ha deciso di procedere verso il referendum confermativo; si tratta di un referendum di tipo costituzionale, in cui gli elettori saranno chiamati a scegliere tra l’approvazione o il rigetto in toto della proposta di riforma promossa dal governo Renzi e già approvata dal Parlamento.

Tale iter è previsto  dall’articolo 138 della Costituzione, secondo il quale, qualora la riforma non venga direttamente promulgata dai 2/3 di ciascuna Camera, vi è la possibilità di richiedere un referendum entro i successivi tre mesi per sottoporla al giudizio popolare. Facoltà esercitata nello stesso aprile 2016 dal governo. A differenza di quelli abrogativi, tali referendum costituzionali non necessitano del raggiungimento di un quorum di votanti per essere validi, pertanto la riforma costituzionale sarà promulgata dal presidente della Repubblica ed entrerà in vigore se i voti a favore saranno maggiori di quelli contrari. La consultazione si terrà in un’unica giornata, il 4 dicembre.

Un po’ di storia

Quello del prossimo inverno sarà il terzo referendum costituzionale nella storia della Repubblica italiana (a pochi mesi di distanza dal referendum abrogativo sulla durata delle concessioni per le trivellazioni in mare entro le 12 miglia dalla costa): il primo si tenne il 7 ottobre del 2001, quando gli italiani furono chiamati a decidere se confermare la modifica o meno del Titolo V, parte II della Costituzione. Allora, con un’affluenza complessiva del 34,05 per cento, furono i sì a prevalere (64,21 per cento contro il 35,79 per cento dei no).

Il secondo referendum costituzionale si è svolto nel 2006 – il 25 e 26 giugno – e portò alla bocciatura della c.d. devolution (affluenza al 52,46 per cento, prevalsero i no con il 61,29 per cento contro il 38,71 per cento dei sì) fortemente voluta dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. 

Cosa prevede in concreto la riforma

Tornando ai giorni nostri, ecco cosa prevede la riforma:

Senato | fine del bicameralismo perfetto: in particolare la riforma propone di andare oltre l’attuale composizione del Senato, e di rivederne anche le competenze, così da porre fine al bicameralismo perfetto che attualmente caratterizza l’assetto istituzionale italiano (ormai superato da gran parte delle democrazie). Per quanto riguarda la composizione, il numero dei senatori diminuirà da 315 a 100, di cui 95 verranno eletti dai Consigli regionali. Dei 95, 74 saranno scelti tra i consiglieri regionali e 21 tra i sindaci in carica. I restanti 5 senatori saranno nominati dal presidente della Repubblica per un mandato complessivo di sette anni. Non rientrano nel computo i senatori a vita, attualmente 6 (Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, Elena Cattaneo, Mario Monti, Renzo Piano e Carlo Rubbia). Per quanto riguarda le competenze, la Camera dei Deputati diventerà l’unico organo eletto dai cittadini con suffragio diretto, sarà l’unica assemblea che potrà approvare le leggi ordinarie e di bilancio e accordare la fiducia al governo. Verrà così eliminata la c.d. “navetta”, ossia il rimbalzo da una camera all’altra di una stessa legge. Il Senato diventerà Camera delle Autonomie e conserverà poteri legislativi solamente in alcuni casi: riforme costituzionali, disposizioni sulla tutela delle minoranze linguistiche, referendum, leggi elettorali degli enti locali, politiche europee e ratifica dei trattati internazionali. Per il resto avrà poteri consultivi.

Nuovo iter per i referendum: Se i referendum abrogativi verranno proposti da 800 mila cittadini, anziché da 500 mila (la soglia minima rimane questa), per raggiungere il quorum basterà che vadano al voto la metà più uno degli elettori delle ultime elezioni politiche, e non la metà più uno degli iscritti alle liste elettorali (che rimane la soglia per i referendum abrogativi proposti con 500 mila firme). Un’altra novità è l’introduzione dei referendum propositivi. Inoltre, per le leggi di iniziativa popolare, non saranno più sufficienti 50mila firme, ma ne serviranno 250 mila.

Abolizione del CNEL: il CNEL è un organo consultivo, previsto dall’articolo 99 della Costituzione, che è attualmente composto da 64 consiglieri e ha facoltà di iniziativa legislativa in materia economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge. Il ddl Boschi ne prevede la soppressione.

Modifica del Titolo V: questa è la seconda parte più importante della riforma, dopo quella in cui si propone di ridefinire il Senato. Il Titolo V della Costituzione è stato già riformato nel 2001, come scritto in precedenza, e disciplina soprattutto le autonomie locali. Con il ddl Boschi, un po’ di materie torneranno di esclusiva competenza dello Stato, mentre scompariranno le competenze concorrenti. Tra le più importanti materie che saranno di competenza statale: ambiente, gestione portuale e aeroportuale, trasporti e navigazione, produzione e distribuzione di energia, occupazione e sicurezza sul lavoro, ordinamento delle professioni.

Elezione del presidente della Repubblica: il presidente della Repubblica sarà eletto dalle due camere riunite in seduta comune, e non parteciperanno più all’elezione i delegati regionali. Per l’elezione sarà necessaria la maggioranza dei 2/3 fino al quarto scrutinio, dal quinto in poi basteranno i 3/5. Solo al nono scrutinio basterà la maggioranza assoluta.

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Pro e Contro il referendum

A favore della riforma costituzionale, e dunque per il Sì al referendum, saranno il Partito Democratico e le altre forze politiche che sostengono il governo, su tutte NCD di Angelino Alfano e l’UDC, oltre i c.d. verdiniani. I punti cardine su cui insistono dal fronte del sì per la campagna elettorale sono: la diminuzione del numero dei senatori e un contestuale risparmio sugli stipendi. Ulteriori risparmi dovrebbero essere ottenuti grazie all’abolizione del CNEL e alla definitiva abolizione delle province. Si tratta comunque di cifre irrisorie, specie se confrontate con un bilancio pubblico di circa 500 miliardi di euro annui. Inoltre, dal fronte del sì auspicano la riduzione dell’iter legislativo e la risoluzione dei conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni in breve termine. Il governo Renzi in questi mesi ha già ottenuto in merito l’endorsement di autorevoli accademici: Franco Bassanini e Tiziano Treu, oltre al costituzionalista Stefano Ceccanti e all’economista Guido Tabellini. E ancora Paolo Carrozza, Angelo Panebianco, Michele Salvati e Salvatore Vassallo, che hanno firmato il Manifesto del sì.

Contro la riforma, e per il No al referendum, al momento sono schierate tutte le forze che si trovano all’opposizione: dalla sinistra radicale (Sinistra Italiana – Sinistra Ecologia e Libertà – Rifondazione Comunista) alla Lega Nord, oltre al Movimento 5 Stelle e Forza Italia (nonostante abbia partecipato alla scrittura del testo della riforma, votandola anche in Parlamento). Le opposizioni lamentano che potrebbe esserci una svolta autoritaria, qualora vincesse il sì al referendum; in particolare, tale rischio autoritario – per queste – si profilerebbe nella combinazione tra la riforma costituzionale e l’Italicum (la nuova legge elettorale entrerà in vigore a luglio 2016 e garantisce un ampio premio di maggioranza al partito che ottiene un voto in più degli altri). Anche il fronte del no potrà contare sull’appoggio di autorevoli costituzionalisti: Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida, Antonio Baldassarre, Lorenza Carlassare, Ugo De Siervo, i quali hanno però specificato – in un documento pubblico di critica alla riforma – di non essere tra coloro che temono una svolta autoritaria. Le critiche di questi ultimi si concentrano infatti sulla forma e sulla sostanza della riforma. Formalmente, viene contestato al governo di aver approvato il ddl senza un ampio consenso parlamentare, cioè di non aver ottenuto un consenso maturato tra le forze politiche. Per quanto riguarda la sostanza, i costituzionalisti firmatari della lettera pubblica lamentano il fatto che la riforma riduce troppo il potere del Senato mediante la fine del bicameralismo perfetto; inoltre contestano la stessa consultazione popolare, in quanto, diversi argomenti (grandi temi) sono trattati in un’unica legge anziché separatamente, chiamando gli elettori a votare ed esprimersi su un unico quesito definito non omogeneo.


 

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