L’eredità di Obama sulla questione siriana

Sono cinquantuno i firmatari funzionari del Dipartimento di Stato americano che chiedono con un documento affidato al «dissent channel[1]» di intervenire più duramente contro il regime di Assad.

La notizia, pubblicata dal New York Times, è un indicatore del malcontento diffuso tra le fila della diplomazia di Washington circa la strategia estremamente cauta di Barack Obama sul coinvolgimento americano in Siria.

È chiaro che a conclusione del mandato, una riflessione sulla cosiddetta historical legacy del primo presidente afroamericano circa il Medio Oriente va fatta e, in merito, i giudizi degli analisti sono contrastanti.

Da alcuni commentatori è stato sottolineato come il mandato obamiano abbia rappresentato un ritorno alla normalità dopo anni di interventismo eccessivo, con una politica estera nuova, multilaterale e dialogante. Per altri, invece, la dottrina Obama è il prodotto dell’incompetenza e della debolezza dell’establishment americano. Obama, con la sua reticenza nell’intervenire nei maggiori conflitti mediorientali, ha favorito un vuoto di potere nella quale si è inserito l’Isis.

Uno dei principali punti di debolezza è rappresentato certamente dalla questione siriana, sulla quale il presidente americano ha sempre avuto una posizione, almeno apparentemente, ondivaga.

Andando a ritroso, subito dopo la primavera araba, le sollevazioni contro il regime di Assad si sono presto trasformate in una cruenta guerra civile che, ancora oggi, non trova uno sbocco stabile né in senso democratico né in senso autoritario.

Gli Stati Uniti, nell’affermare la propria linea politica sul conflitto siriano, si sono trovati di fronte ad alcuni grandi ostacoli. Innanzitutto, Obama, ha dovuto fare i conti con l’eredita estremamente pesante del suo predecessore George W. Bush di interventismo sulla scena internazionale. L’opinione pubblica americana, ma anche buona parte del congresso – dopo le fallimentari guerre in Iraq e in Afganistan – sono stati fortemente contrari a mettere nuovamente “gli scarponi sul terreno” in un territorio periferico come poteva essere quello siriano, per di più in una guerra dagli esiti molto incerti, in cui il coinvolgimento di Mosca rappresenta un’ulteriore complicazione.

In effetti, sulla questione siriana la Russia ha sempre giocato un ruolo decisivo nel sostegno ad Assad e nella lotta all’Isis. I russi hanno permesso al regime di recuperare la fascia costiera settentrionale, alcune città importanti e la parte più popolata del paese. La riconquista della città di Palmira, caduta in mano al Califfato, grazie all’aviazione russa ha rappresentato nell’opinione pubblica internazionale un punto a favore di Putin. Si gioca così un’importante partita geo-strategica negli equilibri tra le due grandi potenze mondiali: Usa e Russia. Oggi l’interventismo russo – che vuole mantenere in vita in regime amico di Assad per stabilizzare la sua presenza sulla regione, riuscendo contemporaneamente ad infierire importanti contraccolpi all’Isis – farà tornare in gran spolvero l’immagine dei russi nel mondo, a dispetto degli Stati Uniti che appaiono meno decisi nell’intervento, nonostante, nei fatti, entrambi si limitino a bombardare le postazioni di Daesh dal cielo. Putin ha saputo farsi meglio pubblicità.

Negli ultimi mesi Usa e Russia hanno intrapreso la via negoziale con il “cessate il fuoco”. Nonostante ciò, settimana scorsa, dei cacciabombardieri russi hanno colpito dei combattenti ribelli sostenuti dalla Casa Bianca. Secondo i militari americani, l’attacco aereo sarebbe stato effettuato per fare pressione agli Stati Uniti. Mosca ha da tempo richiesto agli Usa di coordinare la campagna aerea in Siria. Proposta che l’amministrazione Obama ha dovuto respingere poiché sarebbe stata vista come una legittimazione del regime di Assad. Altro punto a favore della propaganda di Mosca. Insomma, a partire dal grande errore di comunicazione del 2013 in cui il presidente Obama parlò dell’utilizzo di armi chimiche come “linea rossa” per intervenire in Siria e la Russia si intestò il successo diplomatico di aver fermato l’intervento americano, il Cremlino gioca la parte del leone nella questione siriana.

La politica di appeasement adottata in Siria da Obama potrebbe avere anche altre ragioni: potrebbe anche essere figlia dell’interesse nel concludere lo storico negoziato sul nucleare con l’Iran, questo sì, ascrivibile tra i grandi successi del presidente americano. Teheran, insieme agli hezbollah e ai russi sono i tre grandi sostenitori del regime di Assad e un atteggiamento più deciso degli americani contro quest’ultimo avrebbe potuto compromettere il dialogo con un paese che è stato uno dei suoi principali nemici dal 1979.

Alla luce della complessità del conflitto siriano e degli innumerevoli interessi regionali e strategici che girano intorno a questo paese, dilaniato dalla guerra civile ed occupato dallo Stato Islamico, appare più chiara la posizione attendista di Washington, compromessa oltretutto dalle fallimentari guerre precedenti. Oggi, con l’avanzata del Califfato sul territorio, il moltiplicarsi degli attacchi terroristici e il fenomeno migratorio sempre più difficile da controllare, è necessario puntare su un nuovo attivismo americano. Il futuro presidente americano avrà il compito di gestire una situazione niente affatto semplice.

Antinea Pasta

[1] Il Dissent Channel è un canale interno creato ai tempi della guerra in Vietnam per consentire il dibattito e il dissenso nel corpo diplomatico Usa.


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