La battaglia di Fallujah: uno scacco all’Isis, ma incombe il rischio di una catastrofe umanitaria

È notizia della settimana scorsa che l’esercito di Baghdad – dopo una settimana di violenti combattimenti e grazie alla copertura aerea delle forze della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti – sia alla riconquista della città irachena di Fallujah, dal gennaio del 2014 nelle mani dell’Isis.

Le truppe sono riuscite ad aprire almeno tre fronti e gran parte della città risulta circondata, ma i miliziani del Daesh resistono, ostacolando l’avanzata con autobombe, mine, razzi Katyusha e obici. Vi è il rischio concreto di una vera e propria strage, dato che nella città sono ancora presenti 50.000 civili, di cui circa 20.000 bambini, che l’Isis potrebbe utilizzare come “scudi umani”. La situazione in città è al limite della catastrofe umanitaria: cibo, acqua e medicine scarseggiano e per di più si parla del reclutamento di “bambini soldato” da parte dei miliziani. L’avanzata delle truppe è estremamente complessa proprio per la presenza dei civili e di ordigni disseminati ovunque, con il pericolo di avere un lungo stallo nelle operazioni, prima di poter giungere ad una risoluzione.

La riconquista di Fallujah assesterebbe un duro colpo al sedicente Stato Islamico, non solo dal punto di vista strategico, ma anche simbolico. Per comprenderne meglio la portata è necessario ripercorrere brevemente i passaggi chiave della recente storia della città.

Falluja, detta anche “la città delle moschee”, si trova a circa 70 km da Baghdad, nella regione dell’Anbar. Essa rappresenta da sempre uno dei luoghi più importanti dell’islam sunnita, soprattutto di quello più radicale, con una diffusa presenza di predicatori convertitisi all’ideologia wahabita. Dopo la caduta del regime, prima nel 2003 e poi nel 2004, la città fu teatro di violentissimi combattimenti tra le forze statunitensi e la resistenza dei combattenti vicine a Saddam, tanto da essere ribattezzata il “nuovo Vietnam”.

Nel 2014, dopo il ritiro delle forze di sicurezza, Fallujah cadde in mano ai combattenti antigovernativi, che negli ultimi dieci anni – nel colpevole silenzio dell’opinione pubblica occidentale convinta di aver esportato la democrazia – avevano creato, all’insegna dell’odio e della barbarie, le fondamenta di quello che poi si sarebbe autoproclamato Stato Islamico. Da allora Fallujah divenne la “testa di serpente”, proprio perché da questa città partì l’avanzata di Daesh.

È chiaro quindi che la sua riconquista assuma una grande valenza simbolica, ma come detto, anche strategica: essa rappresenta il primo passo nella bonifica della regione dell’Anbar, che permetterà la creazione di una base a sud del paese, utile per sferrare l’attacco decisivo verso Mosul, vero obiettivo delle forze anti-Isis.

Tra i rischi del post-assedio ci sono le possibili ritorsioni sulla popolazione sunnita da parte dell’esercito. Quest’ultimo infatti è composto, in larga parte, da milizie sciite paramilitari e dalle unità di Pasdaran inviate dall’Iran. Armatissimi e molto settari, questi gruppi di combattimento – non tutti iracheni ma provenienti anche dai paesi vicini, mossi dalla spinta ideologica dell’internazionale sciita promossa dall’Iran – possono trasformare la campagna militare in un’occasione di vendetta contro i sunniti.

La ripresa di Falluja, dunque, è un passaggio fondamentale nella battaglia al Califfato, anche perché a parte Ramadi, a quest’ultimo rimangono ancora alcuni dei centri principali e molte delle risorse petrolifere dell’Iraq. La lotta all’Isis, quindi, si prospetta ancora lunga e complessa.

Antinea Pasta


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