Obama e l’Europa: aiuto reciproco, ma soprattutto tra europei

“Il mondo ha bisogno di un’Europa unita” diceva – in soldoni – un paio di mesi fa il presidente degli Stati Uniti Barack Obama a un meeting internazionale a Berlino. Facendo appello a quei grandi fondamenti che hanno unito i paesi europei dopo il Secondo Conflitto Mondiale, Obama ha sottolineato la necessità di invertire la rotta di questa disintegrazione che sembra in moto da tempo.

Reunion di intenti che oltre i sentimentalismi coinvolge direttamente la questione economica dispiegata in un grande limite: la difficoltà – se non l’impossibilità dettata dall’assenza di volontà in merito – di una crescita simmetrica dettata da politiche comuni e, in ogni caso, l’impossibilità della “crescita infinita”. Paese principale destinatario di questo “messaggio per il condottiero d’Europa” era proprio la Germania, l’unica capace di “consigliare” le misure indispensabili da parte di ognuno dei Membri dell’Unione. Condottiero non tanto per il rigore e la fermezza dimostrata ma per la sua statura politica ed economica, anche se alla parola “leadership” è assicurato il fuggifuggi tedesco. Germania alla quale resta la ferita delle telefonate “origliate” da parte della National Security Agency (NSA), per le quali chiese formalmente perdono il Presidente U.S.A. in una visita nel Novembre 2013, appena qualche settimana dopo lo scandalo.

Per quanto riguarda il rapporto speciale tra Italia e Stati Uniti, l’alternanza di governi diversi ha ovviamente inciso anche sulla diversa propensione a una linea più o meno filo-americana.

Gli accadimenti di portata internazionale degli ultimi decenni hanno trovato un’Italia economicamente e politicamente debole. Fatto che ha storicamente diminuito la sua importanza agli occhi dell’alleato statunitense è l’inesorabile – fortunatamente – avanzare democratico in Europa: se un tempo l’Italia era l’ultimo baluardo degli interessi e dei valori occidentali in contrapposizione con la minaccia sovietica, adesso non esiste che la minaccia terroristica, in un’Europa forzatamente unita negli obiettivi – Brexit a parte – e nelle operazioni di peacekeeping, per non soccombere come spettatrice nella politica estera, posizione che sancirebbe la morte dell’Unione.

“Agire per non sparire” sembra essere il naturale richiamo d’orgoglio necessario dopo le parole così concilianti e cariche di speranza di Obama “per gli Stati Uniti, ma soprattutto per il mondo intero, abbiamo tutti bisogno di un’Europa forte, prospera, democratica”. La prospettiva, richiamata più volte, di una integrazione dei mercati sempre più forte, è celebrata in altre parole del Presidente statunitense: “i nostri rapporti economici sono ormai legati in maniera indissolubile, le vostre città, le nostre città, gli Americani sentono Parigi, Londra, Praga, Roma, Bruxelles, Varsavia e le decine di altre capitali europee come le loro città soprattutto quando sono sotto attacco”.

La consacrazione di un legame tra l’unione per la sicurezza e l’unione per il destino economico appare un buon motivo, secondo alcuni, un pretesto, secondo altri, ma due direzioni che ormai sono collegate. Gli attentati terroristici in Europa hanno principalmente l’obiettivo di danneggiare – sì casualmente, come è tipico degli attentati di questa matrice – il paese vittima dell’attacco, vuoi per la diminuzione del turismo, vuoi per la paura degli investitori, e così via. Come a dire che “più grandi siamo e meno possono danneggiarci” i due super-partners non si sono di certo lasciati al primo battibecco. Sembrano quasi una vecchia coppia un po’ spazientita ma solida.

La tentazione a lanciarsi nel fascinoso – per lo meno nella definizione – vortice del Transatlantic Trade and Investment Partnership, noto come TTIP, sembrerebbe a questo punto forte e irresistibile. Criticato in Europa come negli States, il TTIP non avrà vita facile, ed è anche per questo e per i molti dubbi sulla legislazione standardizzata (riguardo a regole doganali, sanitarie, fitosanitarie) che il trattato è in fase di negoziato dal 2013. L’accordo commerciale tra Unione Europea e Stati Uniti è inoltre criticato su un aspetto non meno importante riguardo ai suoi contenuti: la mancanza di trasparenza delle sue fasi di formazione e trasformazione, situazione che è divenuta ingestibile anche dagli stessi europarlamentari che dovranno votarlo.

Un’altra tematica toccata da Obama è la “burocrazia soffocante le aspirazioni dei cittadini europei”, definita la causa del rallentamento dei paesi del Sud Europa, e la causa di milioni di disoccupati, soprattutto tra i giovani. L’incapacità di donare speranza alle nuove generazioni è sinonimo di mancanza di futuro. E sembra che il Presidente americano, ormai quasi alla fine del suo secondo e ultimo mandato, voglia lasciare ai posteri una direzione politica ben precisa. Una direzione di fatto ignorata dalla campagna elettorale dei due nuovi aspiranti leader, Trump e Clinton.

Vista così sembra di descrivere l’Europa come l’alleato meno appetibile per una superpotenza come la corazzata americana, e in effetti lo spostamento strategico verso nuove frontiere avviene sotto i nostri occhi – ed è in corso da molto tempo – con il cosiddetto “piano B” della Casa Bianca alla conquista del Medio Oriente o Eurasia, di cui ha ampiamente trattato Samuel Huntington, l’area geografica dove si gioca la battaglia più importante per l’egemonia statunitense.

La sola NATO, la principale piattaforma di cooperazione bilaterale tra Unione e Stati Uniti, non può rappresentare uno step utile alla fiducia reciproca e al cammino “a braccetto” tra i due soggetti, soprattutto dopo le divergenze sulla questione libica e quella russa. E se dobbiamo riportare il dibattito a una memoria post-bellica, facile risulta l’eco retorica. Quel che è certo è che Obama non ha dato indicazioni chiare sul come e il dove sono stati commessi sbagli o su chi debba agire più di altri, ma sappiamo bene l’importanza di una rinascita dell’Europa per gli americani – questo è chiaro – ma soprattutto per se stessa.

Daniele Monteleone