La favola dell’Albania ad Euro 2016

Di Mario Montalbano – “Il sogno di una cenerentola che per la prima volta viene invitata al ballo dei potenti”. Con queste parole, il commissario tecnico della nazionale albanese di calcio, Gianni De Biasi, ha recentemente descritto lo stato d’animo di un’intera nazione che si appresta a partecipare per la prima volta nella sua storia, alle fasi finali di una competizione internazionale, gli Europei.

Un’impresa, nel senso letterale del termine, prendendo in considerazione i mezzi economici e sportivi a disposizione del sistema calcio albanese. “Conseguenza del nuovo format della competizione”, voluto dall’ex presidente dell’UEFA, Michel Platini, dicono i più pragmatici. “Magia dello sport”, e in questo caso del calcio, rispondono i più romantici. E come dargli torto? La storia contemporanea dell’Albania, d’altronde, ci presenta un paese situato in una zona, i Balcani, sicuramente tra le più controverse. E Tirana non fa eccezione, rispetto agli altri stati della regione. Una lunga dittatura, quella comunista di Enver Hoxha, durata decenni, al termine del quale il paese si è trovato, suo malgrado, drammaticamente arretrato.

Siamo agli inizi degli anni Novanta, e già allora molte famiglie, causa le difficili condizioni socio-economiche cominceranno a migrare verso terre promesse, nella speranza di nuove e migliori occasioni. Ma, sarà il conflitto nel vicino Kosovo, le persecuzioni etniche di Milosevic e i bombardamenti della Nato, ad incrementare i numeri del fenomeno migratorio. Migliaia saranno gli albanesi, che intraprenderanno la traversata  fino alle coste della Puglia, nel litorale salentino tra Brindisi e Otranto. Ancora nitide sono nei nostri occhi le immagini televisive delle navi, talmente stracolme da spingere i profughi a gettarsi in mare, per raggiungere quanto prima i soccorsi. Italia sì, ma a volte solo di passaggio verso altre terre, sicuramente più attraenti da un punto di vista lavorativo. Svizzera e Germania, tra le tante, dal quale ripartire per ricostruire una vita e dare un futuro ai propri figli.

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Gianni De Biasi

E proprio da queste, Gianni De Biasi, e il suo staff, ha iniziato il lavoro di scouting, che avesse come obiettivo, quello di trovare calciatori con origini albanesi adatti a comporre una squadra competitiva. Generando al contempo un vero e proprio ricambio generazionale, che ha portato il commissario tecnico ad avere metà della rosa composta da naturalizzati, approfittando delle origini dei genitori, componenti di quella generazione migrante degli anni ’90. Un lavoro di raccolta dati anagrafici, fatto quasi di porta in porta.

Tanti calciatori si sono trovati di fronte ad una scomoda scelta: propendere per l’Albania e le origini familiari o sperare nella chiamata della nazionale, specie se blasonata, in cui si è nati e cresciuti. E non sono mancati casi anomali all’interno della stessa famiglia. Come quello dei fratelli Xhaka: da una parte Granit, che ha preferito difendere i colori della Svizzera, dall’altra Taulant, che ha accettato, senza esitazione, la proposta di mister De Biasi.

Ma, può una rosa composta a metà da calciatori cresciuti lontano da Tirana, avere un attaccamento tale da difendere i colori della propria nazione? Domanda retorica, se volete provocatoria, che, però, spontaneamente in tanti si sono posti. Era lecito avere delle riserve. Eppure il caso dell’Albania, per certi versi, ha fatto storia. Dimostrazione di come, tra i naturalizzati, fosse forte il senso di attaccamento, e d’appartenenza alle proprie origini. Sì perchè dato l’alto numero di componenti naturalizzati, di questo si deve parlare. Di attaccamento alle origini, e alla storia dei proprio genitori. Al di là di ogni processo di naturalizzazione, di qualsiasi passaporto. E un episodio sta lì a dimostrarlo.

14 Ottobre 2014, Partizan Stadium di Belgrado. È in corso la partita, valida appunto per la qualificazione ad Euro 2016 tra Serbia-Albania. Un match storico, dato che era la prima volta dai tempi della guerra, che le due compagini si incontravano. La gara, nonostante la tensione visibile, scorre normalmente, senza grandi sussulti emotivi, oltre che calcistici, dato lo zero nelle colonne dei gol di entrambe le squadre. Si arriva al quarantunesimo minuto della ripresa. Mentre il gioco è fermo, causa un fumogeno in campo, un drone con appesa una bandiera sorvola il terreno di gioco. E’ nera, con una macchia rossa al centro, due volti e una scritta. Sono raffigurati i volti di Ismail Kemali e Isa Boletini, i personaggi più rappresentativi dell’indipendenza albanese del 1912 dall’Impero Ottomano, e soprattutto la bandiera della Grande Albania, comprendente regioni che attualmente non fanno parte dello stato dell’Aquila a doppia testa, come il Kosovo, e parti del Montenegro, della Macedonia e della Grecia. Mitrovic, giocatore della Serbia, non ci pensa su due volte e la strappa dal drone. È l’inizio del putiferio. I primi a reagire tra gli albanesi sono stati Lila e Xhaka. Sì, proprio lui, Taulant, uno dei naturalizzati, la cui immagine dove stringe a sé la bandiera, difendendola dall’aggressione dei serbi, in quella notte di Belgrado è già passata alla storia. Rappresentazione del senso di orgoglio e attaccamento dell’Albania in un contesto, e dei figli della generazione di migranti fuggiti da guerra e disperazione negli anni ’90.


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