Erdogan: un uomo solo al comando della Turchia

Dopo aver sbrigato tutto solo la faccenda immigrazione, il – fu – Primo Ministro turco Davutoglu ha lasciato il posto di guida del governo e di leadership del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp). La gestione dei migranti provenienti (e di ritorno) dalla Grecia non deve essere piaciuta proprio, soprattutto perché andata avanti e conclusasi quasi senza consultazione del grande capoDapprima Consigliere agli affari esteri, poi Ministro degli Esteri, Davutoglu ha ottenuto la guida governativa dopo quindici anni di onorato servizio, sempre fedelissimo a Erdogan. “Dopo consultazioni con il nostro presidente e con le persone di cui mi fido, sono arrivato alla conclusione che un cambiamento nella posizione di leader del partito e di primo ministro è la cosa migliore” le parole del premier uscente, visibilmente emozionato e con qualche interruzione involontaria, in diretta tv davanti i dirigenti del partito. Le dimissioni sono state relativamente silenziose, considerato lo scontro di potere che si era profilato all’orizzonte.

La mossa obbligata è arrivata in seguito a un incontro con il presidente Erdogan, l’autore di questa spintarella – più uno spintone a dirla tutta – giù dalla ambita poltrona governativa. Il commento che ha dichiarato il solido Capo di Stato non può essere che un prevedibile saluto: “Gli auguro buona fortuna, è una decisione che ha preso lui ”.

Se prima il Presidente aveva dovuto guardarsi dalle testate giornalistiche di opposizione, attuando una campagna aggressiva di censura sotto un implicito lasciapassare europeo – si ricordano le misure prese contro il quotidiano Zaman, e più in generale contro il Feza media Group, autori di una campagna “terroristica” e destabilizzante a detta di Erdogan – adesso ha dovuto sondare tra i fedelissimi e trovare il meno affidabile.

Il tiepido Davutoglu, troppo moderato, troppo interessato alla riuscita turca nel panorama internazionale, troppo attaccato alla poltrona – peraltro di nomina presidenziale – è stato il sacrificio necessario per spianare la strada al profondo tentativo di riforma verso una direzione ben “erdoganizzata”. E’ mancata proprio la spinta del governo per le modifiche costituzionali utili a trasformare una carica cerimoniale, come quella presidenziale, in una più strettamente esecutiva nelle funzioni, tipica della figura del premier.

Una politica troppo morbida, quella del dimissionario, ha convinto il Presidente turco a porre fine al conflitto definitivamente: in primis l’arresto di diversi intellettuali, tra circa mille accademici provenienti da diverse università – non solo turche – firmatari di una petizione per la pace con i curdi e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) , su cui si era scagliato Erdogan invitando “i sedicenti accademici a scegliere se schierarsi con il governo o con chi vuole dividere il Paese ”. Una visione non del tutto condivisa dall’allora Primo Ministro Davutoglu. Inoltre, quest’ultimo non ha mai criticato Erdogan pubblicamente sull’azione repressiva nei confronti della libertà di stampa, sull’arresto frequente di giornalisti colpevoli di accuse standard, sempre incentrate sulla cospirazione o sul terrorismo, e sulle violazioni dei diritti umani.

Nonostante il silenzioso rifiuto – che a poco vale – Davutoglu non era d’accordo su queste misure estreme contro determinati giornali e non è riuscito a esprimersi in maniera sufficientemente forte da persuadere il suo capo ad alleggerire la pressione sulla stampa. Una diversità politica evidente risiede anche nel rapporto con i vicini: il Presidente ha sempre mantenuto la volontà di affermare la supremazia turca nell’intera regione, un atteggiamento che si discosta dalla costruzione di buoni rapporti tentata dall’ex Premier, soprattutto nel dialogo con i Curdi e con l’Unione Europea.

Tra gli eventi più recenti che testimoniano l’insanabile frattura vi è la cancellazione dell’incontro tra il Primo Ministro e Barack Obama, decisa dalla presidenza, così come il ritiro del potere di nomina degli amministratori locali dell’Akp, avvenuto appena qualche giorno prima delle dimissioni. Di ritorno da un viaggio istituzionale in Qatar, Davutoglu è stato  “attaccato” con questa decisone presa a sua insaputa dal consiglio direttivo del partito, la Commissione centrale per la decisione e l’attuazione (Mkyk), che ha ben deciso di assegnare a se stessa la funzione di nomina. Una mossa che molti osservatori hanno giudicato come “manovrata” dal Presidente. Tutti fattori che dipingono un quadro chiaro dove il governo ha rischiato di essere troppo autonomo per Erdogan, intenzionato a costruire un sistema presidenzialista.

Il 22 Maggio si terrà un congresso straordinario di partito dove verrà eletto il successore. Si attende il nome nuovo al quale verrà incaricato di dirigere il governo, anche se ci si aspetta un uomo di partito che non faccia resistenza alla costituzione di una “Erdoganland”.

Daniele Monteleone