Stupro e violenza sessuale come armi di guerra

«Cosa eravamo costrette a fare: cambiare nome, indossare un vestito intero con un solo bottone facile  d’aprire, 50 soldati giapponesi al giorno, a volte ce n’era una nave intera… Tanti di quegli uomini che non riuscivo a camminare, non riuscivo ad allungare le gambe… Cosa ci è rimasto: Un padre sconvolto che non si è più ripreso, ed è morto. Niente stipendio, cicatrici, odio per gli uomini, niente figli, niente casa. Uno spazio dove un tempo c’era un utero. Alcol, fumo, senso di colpa, vergogna. Cosa hanno preso: La primavera, La mia vita». 

Scrive così Eva Ensler, ne I monologhi della vagina, delle donne di conforto, una delle piaghe più tristi della storia dello scorso secolo. L’uso della violenza sessuale come arma di guerra da parte delle forze armate è una costante nei conflitti armati più disumani su cui l’attenzione mediatica è poca o assente. Le violenze colpiscono indistintamente donne e bambine, le quali vengono violentate, torturate, mutilate e costrette alla schiavitù sessuale. Molte donne subiscono stupri di massa, altre sono costrette ad avere rapporti con i familiari. Alcune donne incinte vengono intenzionalmente sventrate.

Sappiamo che la violenza sessuale durante un conflitto armato è una prassi dolorosamente normalizzata e diramata. Durante la Seconda guerra mondiale,  come in tutte le altre guerre,  sono state perpetrate efferate e gratuite violenze a discapito delle popolazioni colonizzate, per mano di diversi eserciti. Per un lungo periodo di tempo lo stupro è stato persino accettato e considerato come un inevitabile atto di guerra dei vincitori nei confronti dei vinti, un bottino di guerra. Come nel caso delle Comfort Women, circa 200 mila donne costrette alla schiavitù sessuale dai militari giapponesi. 

Nonostante lo stupro di guerra fosse già da considerarsi un reato da punire (in violazione del diritto consuetudinario, dell’art 6 della Carta di Norimberga, della Convenzione dell’Aia del 1907), il Tribunale di Norimberga non si pronunciò su tali crimini. Mentre il Tribunale di Tokyo perseguì dei casi di violenza sessuale come “trattamento inumano”, “maltrattamenti” e “fallimento nel rispettare l’onore e i diritti della famiglia”.

Altre volte lo stupro diventa una vera e propria strategia militare. Durante la Guerra in Bosnia Erzegovina (1992-95), venne attuata una tecnica militare che vedeva la creazione di campi di stupro il cui scopo era di ingravidare le donne appartenenti alle comunità musulmane e croate. In un contesto patriarcale, in cui il figlio eredita la razza del padre, l’obiettivo era quello di modificare la composizione etnica delle generazioni successive. Si stima che in tre anni di conflitto vennero violentate dalle 20 alle 50 mila donne.

Ma furono le vicende del Ruanda a portare a un cambiamento effettivo nella giurisdizione internazionale. In seguito al Genocidio del Ruanda nel 1994, in cui dalle 250 alle 500 mila donne e ragazze ruandesi vennero violentate, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda affermò che “l’aggressione sessuale era parte integrale del processo di distruzione del gruppo etnico Tutsi […] manifestando così lo specifico intento richiesto da queste azioni per costituire un genocidio.”

Vi fu una femminilizzazione del genocidio (Ronit Lentin), che utilizzò la donna al fine di distruggere un’intera etnia. Altre volte lo stupro diventa uno strumento per esercitare un controllo sulla comunità locale, un modo per marcare il terreno, per rendere sudditi i popoli ai quali gli aggressori si avvicinano. Questo accadeva e purtroppo anche ora nella Repubblica Democratica del Congo.

Lo stupro è visto come un’arma di guerra e un modo per annientare la donna: è un metodo veloce e sicuro per riuscire a mutilare intere comunità, condannandole ad un’inarrestabile umiliazione. Talvolta si fa ricorso allo stupro per contagiare intenzionalmente le donne con il virus dell’HIV o per renderle sterili. Esso contribuisce alla loro morte o alla morte dei feti che portano in grembo. Per questo motivo lo stupro è percepito come una guerra psicologica, per umiliare il nemico e minarne il suo morale, volta a colpire il motore che genera la vita.

Le donne rappresentano l’anello centrale da colpire quando si vuole distruggere un’intera società, quando la si vuole lacerare, spogliare dei suoi averi, rendere fragile mentalmente e fisicamente. Secondo Amnesty International la violenza sessuale è utilizzata come una strategia militare, al fine di imporre un controllo sociale, per spingere le popolazioni locali a fuggire dal territorio occupato e dunque utile a ridisegnare i confini.

È facile immaginare le conseguenze psicofisiche che le vittime sono costrette a vivere: dolori lombari e addominali, lesioni vaginali, incontinenza, infezioni trasmesse per via sessuale, malaria, sifilide, gonorrea, tubercolosi, malattie di cuore, gravidanze indesiderate, bambini nati morti, sterilità. E ancora: disordini da stress post-traumatico, esaurimenti nervosi, ipocondria e altre sindromi come insicurezza, ansia, vergogna, auto-colpevolizzazione, depressione, flashback e sfiducia negli altri. Inoltre, in posti in cui la verginità è vista come un tesoro da custodire, l’emarginazione, la stigmatizzazione e l’esclusione sociale sono conseguenze immediate.

Un fattore che consente a questi atti di perdurare è lo stato di impunità in cui versano gli aggressori. Molto rare sono le circostanze in cui un aggressore è perseguito penalmente e condannato a scontare una pena. Queste trasgressioni restano troppe volte prive di un colpevole da punire e di una vittima da tutelare. Ma non solo: spesso si tratta di paesi in cui il sistema giuridico è lento e corrotto, il che porta a una sempre più diffusa tendenza all’attuazione di un crimine che, con buona probabilità, resterà impunito.

In società fortemente patriarcali e dove il ruolo della donna si limita a servire l’uomo, Mons. Théophile Kaboy, vescovo di Goma nella RDC, parla proprio della vittimizzazione e cosificazione della donna, come tendenza a considerarla un oggetto volto alla soddisfazione dei piaceri sessuali dell’uomo. Le donne si sono trasformate in una merce utile allo sfruttamento.

Dopo tanti anni di violenze estreme commesse dalle forze armate o dalla comunità locale, la violenza è ancora percepita come qualcosa di normale per la popolazione civile. Vi è un diffuso sentimento di banalizzazione delle violenze sessuali, che porta a viverle come un fenomeno sociale e non più occasionale, drastico e da condannare.

Lo stupro di guerra e la schiavitù sessuale sono stati riconosciuti dalle Convenzioni di Ginevra come crimini contro l’umanità e crimini di guerra; la sentenza di condanna del Tribunale Penale Internazionale per stupro in quanto crimine di guerra per l’ex vicepresidente della RDC lo conferma. Lo stupro è anche affiancato al crimine di genocidio quando è caratterizzato dall’intenzione di commettere un certo atto allo scopo di distruggere in tutto o in parte un gruppo di individui.

Emblematico in tal senso è il caso di Pauline Nyiramasuhuko, prima donna accusata di genocidio e crimini contro l’umanità dal Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda. Al comando degli squadroni della morte, guidò le azioni di pulizia etnica e genocidio in Ruanda. Fu inoltre l’ideatrice dello stupro come arma di guerra nella Strage di Butare, nell’aprile del 1994, in cui le donne vittime di stupro furono circa 250 mila.

Sebbene le modifiche alle leggi internazionali e nazionali siano essenziali al fine di fermare la piaga delle violenze sessuali come arma di guerra, essi tuttavia non possono avere buon esito senza una maggiore sensibilizzazione della comunità internazionale. Fino a quando saranno le forze armate ad abbattersi contro i civili, e in particolare contro donne e bambini, ogni conflitto armato sarà doppiamente dannoso per la comunità che dovrà vivere il disagio di una guerra e la paura costante per le donne del luogo di diventare vittime dei combattenti.

La cosa più tremenda per una donna stuprata durante un conflitto armato è quella di non essere riconosciuta. Non essere riconosciuta dalle autorità statali come vera e propria vittima di guerra; non essere riconosciuta dalla comunità come vittima di un fenomeno che è realmente esistito e delle volte continua. Essere ignorata dalla storia, nonostante si sia stati parte attiva del conflitto. Aver subito queste atrocità dal nemico e rendersi conto di non esistere agli occhi dei contemporanei.

Queste storie, infatti, esistono solo nell’anima e nel corpo delle vittime e dei loro familiari, non c’è nessuna traccia e niente di ufficiale nei libri. Forse il motivo per cui questi fenomeni continuano a perpetrarsi dipende dal silenzio che vi si è celato intorno durante lo scorso secolo. O si aveva troppa vergogna per parlarne o non lo si considera come effettivamente rilevante. Sta di fatto che se lo studio della storia serve per apprendere gli errori fatti e con quelli costruire una società migliore, allora tutto questo silenzio fa tremare il cuore, perché pochi sapranno e ancora meno saranno quelli a poter prevenire o aiutare.


 

4 commenti

I commenti sono chiusi